02 Mar Un nuovo inizio
di Riccardo Venturini,
Una riflessione sui principî del buddhismo per offrire un contributo alla sua inculturazione nell’ attuale contesto culturale occidentale: sviluppato, complesso, postmoderno in cui spirito scientifico, cristianesimo, rispetto della dignità e dei diritti della persona si sono fusi a formare quello che chiamiamo cultura europea
Il buddhismo, una delle grandi religioni universali dell’umanità, nato in India e largamente diffuso in Asia, è oggi presente come significativa minoranza religiosa in Occidente e nel nostro Paese. Si tratta, tuttavia, ancora di un buddhismo d’importazione (con appartenenze e denominazioni che sono proprie delle scuole di provenienza, con liturgie, manifestazioni, modi di rappresentarsi adeguati a contesti culturali altri) e non di un buddhismo occidentale che possa rispondere ai quesiti relativi alla possibilità di inculturazione e — non più emarginato come uno dei tanti gruppi esotici o new age — essere in grado di offrire risposte alle attuali esigenze di spiritualità presenti in Occidente. È ancora allo stato nascente un lavoro di inculturazione che possa essere paragonabile a quello svolto, in modo incredibilmente fecondo, in India, in Cina, in Giappone e che ha consentito — come è stato detto — che esso potesse svilupparsi e maturarsi, ricevendone, rispettivamente, filosofia, pratica, sensibilità. «Non c’è un unico buddhismo», scrive il maestro vietnamita Thich Nath Hanh, «gli insegnamenti del buddhismo sono molteplici. Quando il buddhismo viene introdotto in una nuova cultura, questa ne produce invariabilmente una forma nuova […]. Sono convinto che l’incontro tra il buddhismo e l’Occidente sarà davvero interessante, produrrà qualcosa di molto importante».
Trattandosi di una tradizione che, da un lato, si è sviluppata lontana da Eschilo e Platone, dal diritto romano e dal cristianesimo, da Pico della Mirandola (De hominis dignitate) e da Cartesio (Cogito), dai “lumi” e dal romanticismo, da Nietzsche e da Freud, ossia dalle radici identitarie della nostra civiltà, dall’altro, si è proposta mete e obiettivi spesso antitetici a quelli della cultura occidentale, le difficoltà non sono trascurabili, per cui sta ormai emergendo (dall’impegno di studiosi, esponenti di altre religioni, laici e, anche se in misura minore, di gruppi e centri buddhisti) l’esigenza di una seria riflessione sulla possibilità di costruire una via occidentale al buddhismo. Esempi: l’impegno multiforme di Vincenzo Piga per un nuovo e unificante veicolo occidentale da denominare Buddhayana (Via del Buddha); il volume di Frédéric Lénoir (studioso, giornalista, direttore della rivista Le Monde des religions), La rencontre du bouddhisme et de l’Occidente, Paris, Albin Michel, 1999), che esamina questo incontro secondo il suo svolgimento storico e nelle sue dimensioni sociali attuali; l’articolo del p. Michael Fuss (gesuita, docente all’Università gregoriana, autore dell’importante volume Buddhavacana and Dei Verbum, Leiden, Brill, 1991 sul Sutra del Loto), The Emerging Euroyana, in Dharma World, may-june 2005, sulla presenza del buddhismo in Occidente e il dialogo con la Chiesa cattolica; la rassegna, di taglio sociologico, di Marta Sernesi, Alla ricerca del vero dharma: modelli descrittivi in competizione e la nascita del Western Buddhism, in Religioni e società, 56, 2006, pp. 7-24; i contributi di Stephen Batchelor.
Le religioni sono interpretabili come dei paradigmi linguistici, dotati di un lessico (un sistema di simboli condivisi, attinti da una determinata cultura), di una grammatica (le regole d’uso dei concetti, delle pratiche e dei valori), di una sintassi (l’articolazione tra questi concetti e le modalità di dialogo con altri linguaggi) e di una retorica (i modi del comunicare e del persuadere). Il buddhismo è uno di questi paradigmi e, per effettuarne un valido confronto coi principî e le strutture sociali proprie della cultura occidentale, si rende necessario un approfondimento dei fondamenti della dottrina e della pedagogia spirituale buddhiste, al fine di svincolarli da interpretazioni legate a tradizioni culturali arcaiche o da volgarizzazioni banalizzanti. Il peggiore dei tradimenti che possa essere operato dell’insegnamento dell’Illuminato riteniamo sia, infatti, quello rappresentato dalla tendenza, oggi assai manifesta e diffusa, della sua trasformazione in ideologia. Di fronte a forme di militanza dottrinaristiche e unilaterali, mistificanti e manipolatorie, per tentare di offrire un contributo a questa “occidentalizzazione” del buddhismo va riscoperto tutto il valore di una riflessione rispettosa e lucida, collocandosi in una posizione “di soglia”, nella convinzione che, come si espresse Sainte-Beuve, spesso «dobbiamo rimanere sulla soglia. Essere lì significa già tanto», evitando di fare come gli stolti di cui il poeta A. Pope diceva che «si affollano là dove gli angeli esitano a entrare»: la domanda sarà, pertanto, da privilegiare rispetto alla risposta, il metodo al sistema, il processo all’ente. Una riformulazione del Buddhadharma adeguata al nostro attuale contesto culturale occidentale, sviluppato, complesso, postmoderno…, riteniamo non possa realizzarsi senza fare i conti con la spiritualità cristiana, con la scienza, lo spirito critico e comparativo, la laicità delle istituzioni, la democrazia e, soprattutto, senza riconoscere l’assunto etico generale del valore della centralità della persona ossia della promozione, difesa e rispetto del soggetto, dei suoi diritti-doveri inviolabili e non negoziabili (diritti dell’uomo), della sua autonomia illuminata. Tale aspetto non è ancora emerso in tutta la sua luce nelle riflessioni che abbiamo sopra citato e, pertanto, nelle note che seguono, dopo una riesposizione delle Quattro nobili verità, ci soffermeremo su questo punto, ripensando alcuni dei concetti fondamentali della dottrina di vita buddhista, ponendo come principale riferimento gli insegnamenti della scuola Tiantai/Tendai, quella che ha elaborato nel modo più compiuto il paradigma del buddhismo Mahāyāna e, in particolare, della concezione del samsāra[RV1] [RV2] [RV3] [RV4] come identico al Nirvāna. La scuola Tiantai/Tendai è poi quella che si è distinta come la più universalistica delle scuole del buddhismo cino-giapponese, da cui sono nate alcune delle più importanti tradizioni e che riteniamo possa essere considerata la più idonea a fornire ispirazioni e strumenti utili al lavoro di rielaborazione indicato e a una possibile verifica di compatibilità, congruenza ed efficacia nell’affrontare l’opera di confronto di culture e spiritualità diverse.
Le Nobili Verità. Il buddhismo, come dottrina storica, è stato identificato con la formulazione delle cosiddette “Quattro nobili verità” (formulate secondo lo schema medico di rilevazione dei sintomi e diagnosi, eziologia, prognosi, terapia), quelle in cui tutta la comunità buddhista si riconosce, pur nella diversità tra le varie scuole.
I. Il mondo fenomenico è caratterizzato da un processo di nascita, crescita, decadenza e morte. Con la comparsa degli esseri senzienti, tale processo, caratterizzato dall’impermanenza e dalla assenza di esistenza propria (inerente) dei fenomeni, è avvertito come faticoso e doloroso, per cui il Buddha ha sottolineato l’onnipresenza del dolore, affermando che: «nascita, malattia, vecchiaia, morte sono sofferenza; stare con chi e con ciò che dispiace, essere lontani da chi e da ciò che piace è sofferenza; non ottenere ciò che si desidera è sofferenza; l’essere finito, nella sua insufficienza, è intrinsecamente sofferente». Ma la dottrina buddhista, specie nella sua versione Mahāyāna, non afferma l’equivalenza di vita e sofferenza, quanto, piuttosto, l’equivalenza di Nirvana e samsara, per cui se il dolore è presente (in atto o in potenza) in tutti i fenomeni, sarà parimente presente in essi, come esplicitamente afferma il Sutra del Loto, una dimensione nirvanica (quello che la coscienza laica ha chiamato “le rose della vita”, J. Cazeneuve, e ha fatto dire a A. Camus: «Il mondo è bello e fuor d’esso non c’è salvezza», riferendosi a bisogni soddisfatti, realizzazione dei progetti, riconoscimento, vissuto di individuazione e di compimento della propria esistenza, esperienze di solidarietà, momenti di armonia col reale e fusione col Cosmo…). Inoltre, la dottrina buddhista ritiene di poter fornire anche alcune modalità se non di eliminazione certamente di gestione della sofferenza e di costruzione di uno stile di vita equilibrato, alla luce della Via di mezzo. Tacciare, pertanto, il buddhadharma di nihilismo e decadentismo non ha giustificazione se non in una lettura, come quella schopenhaueriana, che asserisca quella equivalenza tra vita e dolore, presente in alcune delle espressioni della tradizione buddhista, ma non nella sua totalità. Di fronte a questa versione del buddhadharma non deve più sorprendere che molti autori (G. F. Hegel: il buddhismo ha il nulla come «dogma fondamentale»; Edgard Quinet: «Buddha, questo grande Cristo del vuoto»; Victor Cousin; Jules Barthélemy Saint-Hilaire: le dottrine del Buddha sono «deplorevoli e assurde» e conducono a un «suicidio morale»; Ernest Renan: il buddhismo come «Chiesa del nihilismo»; F. Nietzsche: «solo la tragedia ci può salvare dal buddhismo», «astenia della volontà») abbiano paventato proprio quello che ora, secondo un nuovo paradigma, ci auguriamo: l’affermarsi di un buddhismo europeo.
II. Qual è l’origine della sofferenza? Secondo la formulazione canonica, la seconda nobile verità viene così espressa: «Qual è, amici, la nobile verità dell’origine del dolore? La brama, che porta ad un’ulteriore esistenza, accompagnata da piacere e attaccamento, che si diletta di questa o quella cosa, ovvero la brama dei piaceri sensuali, dell’esistenza e dell’annichilimento» (Saccavibhangasutta, tr. it. in La rivelazione del Buddha, a cura di R. Gnoli, I, Milano, Mondadori, 2001, p. 18). Col suo insegnamento pragmatico, il Buddha non intende, tuttavia, costruire un sistema metafisico né formulare giudizi sulla realtà (apofatismo), ma limitarsi a sottolineare che, nel mondo del divenire, con l’emergere della sensibilità e della coscienza si produce una nuova dimensione del mondo: l’emergere della sofferenza. La legge della paticcasamuppada (coproduzione condizionata) descrive il divenire come un ciclo, il cui motore è individuato nella brama, in una catena ove “nome e forma” (ciò che individua i fenomeni) sono condizionati dalla coscienza, in una sequenza che esita nel patimento («condizionati dalla coscienza si producono nome e forma, condizionati da nome e forma si producono i sei domini… contatto… sensazione… brama… appropriazione… divenire… nascita, vecchiezza e morte, pena, lamento, disagio, angoscia e mancanza di serenità. E così si ha la nascita di tutto questo aggregato di dolore», Mahatanhasankhayasutta o Il grande discorso della distruzione della brama, in La rivelazione del Buddha, cit., p. 32 s.). Ma la brama non andrà collocata in una visione di responsabilità soggettiva produttrice del male (cosa che sarebbe fuori dagli apparati concettuali propri dell’insegnamento del Buddha), ma come conseguenza della presenza della coscienza, insopprimibile anello del ciclo che struttura la realtà fenomenica interdipendente. Come ha ben chiarito Schopenhauer, dobbiamo tenere distinti due piani, quello della Volontà universale, che agisce secondo processi di costruzione e distruzione, e quello della volontà umana, individuata, finita, contingente. Quando, nella evoluzione del mondo fenomenico, appare la sensibilità cosciente, appare anche il patimento, connesso alle infinite frustrazioni della “volontà di vivere”. Il male e la sofferenza connessi alle catastrofi naturali, alle malattie e al dolore fisico, al banchetto della vita che, ad es., costringe i carnivori a cibarsi di altri esseri senzienti, alle crudeltà determinate dalla competizione, dal tradimento, dalla solitudine, mali per di più distribuiti in maniera ingiusta e casuale (conseguenze tutte della finitezza), non possono, infatti, essere ricondotti alla volontà umana individuale, ma portano a concludere che il male è nella molteplicità, il male è nella finitezza. Se, come avverte il Buddha, «Tutto ciò che è condizionato è sofferenza» (Dhp., 278), il finito, il molteplice, non può non produrre dolore ossia la realtà fenomenica è essenziata di sofferenza; dunque, il malum mundi, il male del male, ciò da cui tutti i mali derivano, è la determinazione; da qui l’insanabile contraddizione tra vita individuale (sofferente) e Vita universale (insondabile). La mancata distinzione tra i due livelli e l’attribuzione al soggetto individuale umano dell’origine del male e del dolore, se avanzata al fine di sottrarre “colpe” e “responsabilità” alla Legge che struttura e governa il reale, potrebbe portare, analogamente a quanto è accaduto nella tradizione giudaico-cristiana, a una forma di teodicea, in questo caso “ateo-dicea”, concezione contraddittoria che non risolve ma soltanto sposta il problema dell’origine della sofferenza. Su questo punto le grandi tradizioni spirituali sembrano — pur con ineliminabili differenze — concordare, sul fatto che il finito, delimitato, individuato è giudicato come male dalla coscienza: essendo la coscienza quella che definisce male il male, il male è nel giudizio. Nella tradizione giudaico-cristiana il mito del peccato originale consiste proprio nell’identificazione del peccato con l’inizio della capacità di giudizio: Adamo, mangiando il frutto proibito, comincia a distinguere il bene dal male e quindi comincia a peccare disubbidendo. Nel buddhismo si è affermato che i processi mentali generano sofferenza. È sembrato, quindi, saggio pensare che la salvezza potesse consistere nel ritrovare, attraverso il non giudicare, una “ignoranza” al di fuori del giudizio e che la liberazione fosse nella cessazione della nescienza, con lo smascheramento dell’ego costruttore di tutte le separatezze e il conseguente arresto della produzione condizionata. Coscienza e giudizio visti pertanto non come il punto più alto della creazione/evoluzione, ma piuttosto come una “malattia” da cui essere curati e liberati. Ma le contraddizioni sono fin troppo evidenti: se Adamo ha conosciuto il bene e il male (il giudizio) proprio mangiando il frutto proibito, come considerare peccato il fatto di mangiare il frutto? E, se l’uomo deve lottare per contrapporre una catena di “cessazioni” alla catena della produzione condizionata, non può certo essere ritenuto responsabile della originazione interdipendente. Il silenzio metafisico sullo scandalo del male riduce, quindi, la II delle Nobili verità a un’esortazione psicologica alla misura e all’equilibrio, come tutte le forme di saggezza umanistica hanno consigliato, per non incrementare le situazioni dolorose e conflittuali, aggiungendo sofferenza a sofferenza (v. il discorso del Buddha sulle due frecce: Sallasutta, in La rivelazione del Buddha, cit., pp. 429-35).
III. L’uomo (il più fortunato tra gli esseri senzienti perché dotato di autocoscienza) non è, tuttavia, condannato a essere passivamente sopraffatto dal dolore, potendolo controllare e, in qualche modo, superare. Tale liberazione è fatta consistere nel raggiungimento di una condizione denominata Nirvana o estinzione.
Secondo la tradizione del buddhismo della “scuola antica” (o dei Nikaya o Hinayana o Theravada), del Nirvana non si può parlare in termini positivi, come di una realtà ontologica, ma solo in termini negativi, come di una condizione priva delle limitazioni della realtà del samsara (mondo del divenire e della sofferenza): «Ciò che è nato, divenuto, creato, formato, e, per questo, instabile, congiunto con vecchiezza e morte, nido di malattie, destinato a scomporsi, che trova origine dal nutrimento e dal laccio dell’esistenza, non può di certo portare alla letizia. La serena via di salvezza da tutto ciò è al di là del ragionamento, è stabile, non-nata, non-prodotta, è una condizione priva di afflizioni, limpida, è la cessazione di ogni sofferenza, la beatitudine che pacifica il condizionato» (Itivuttaka, II, 6, tr. it. in La rivelazione del Buddha, cit., p. 763).
Diversamente, la tradizione Mahāyāna rivoluziona la concezione del Nirvana, come risulta dalla formula: «Il samsara è in nulla differente dal Nirvana. Il Nirvana è in nulla differente dal samsara. I confini del Nirvana sono i confini del samsara. Tra i due non c’è la minima differenza» (Nagarjuna, Madhyamaka Karika, XXV, 20). In questa linea, il Tiantai insegna che «l’ignoranza e la sofferenza sono identiche all’illuminazione […], la vita e la morte sono identiche al Nirvana» e per Dogen «nel buddhismo non c’è nessun Nirvana separato dal ciclo di vita e morte […]; non c’è nessun Dharma buddhista al di fuori della vita quotidiana». Pertanto, la risposta che, nel Sutra del Loto, il Buddha dà alla domanda sulla Verità ultima non è data enfatizzando la verità della sofferenza, ma esponendo la Mistica Legge come Veicolo-unico o verità unificante dell’Universo, in cui l’apparire dei fenomeni segue il principio di causazione, espressione dell’assenza in essi di esistenza inerente: «essendoci quello c’è questo, dalla nascita di quello nasce questo; non essendoci quello non c’è questo, dalla cessazione di quello cessa questo» (Majjima Nikaya, I, 262-64). Il carattere cinese usato per scrivere Dharma, composto da acqua e scorrere, sottolinea che la Legge si esprime nel fluire, nel movimento di tutte le cose, secondo i 10 fattori/condizioni (uno degli elementi utilizzati da Chih-i per la costruzione dell’ichinen sanzen): forma, natura, entità, potenza, azione, causa primaria, causa secondaria, effetto, retribuzione, completa unità (di tali condizioni). Questa è l’espressione positiva della verità (o legge) della Vacuità, essendo l’impermanenza interfacciata sia con la sofferenza che col piacere e non essendoci gioie che non siano legate all’impermanenza nei termini dei 10 aspetti. Se il Nirvana non è separato dai fenomeni la felicità non è di un altro mondo, anzi, ricercare la felicità assoluta in un mondo privo di mutamenti può significare malattia dell’infinito, principio del piacere come principio di morte, Nirvana come estinzione di vita e di coscienza.
IV. Constatata l’ineluttabile presenza dell’impermanenza, della mancanza di esistenza inerente e del dolore nella vita degli esseri senzienti («Vi sono cinque cose che nessun asceta, nessun bramano e neppure un dio né Mara né Brahma né alcun altro al mondo è in grado di fare. Quali sono queste cinque cose? Ottenere che quanto è soggetto a invecchiare non invecchi; che quanto è soggetto a malattia non si ammali, che quanto è deperibile non sia distrutto, che quanto è soggetto a finire non finisca; ecco quanto nessun asceta, nessun bramano e neppure un dio né Mara né Brahma né alcun altro al mondo è in grado di fare», Anguttara Nikaya, III, 58), il Buddha volle comunicare agli uomini quanto aveva realizzato nel suo “risveglio”, per guidarli lungo un cammino di saggezza e di liberazione dalla sofferenza, che si è andato configurando diversamente nelle due prospettive Theravada e Mahāyāna. Da queste due posizioni discendono, infatti, due diverse modalità di confronto col dolore che sono l’oggetto della IV Nobile verità.
[…]La penosità dell’esistenza. Nel corso della sua esistenza l’uomo si trova messo a confronto con innumerevoli e diverse sofferenze. Per quanto non sia agevole realizzare una classificazione dei diversi tipi di sofferenza, possiamo distinguere quelle derivanti da eventi catastrofici naturali o prevalentemente naturali (geologici, atmosferici, etc.), quelle da eventi biologici straordinari (epidemie, carestie) o ordinari legati ai limiti del corpo (malattia, vecchiaia, morte) ovvero da calamità umane collettive (guerre, inquinamenti e danni ambientali, incidenti), da malvagità altrui (violenze, inganni, disamore), da conseguenze di propri errori e scelte sbagliate; infine, il dolore di non riuscire a dare significato al dolore. Se le cause vengono poi considerate dal punto di vista della possibile eliminazione dei diversi tipi di patimento, ci accorgiamo che occorre distinguere i problemi e i conflitti “ordinari”, quelli che l’umanità ha cercato e cerca di risolvere con la sua azione intelligente, da altri, pochi, anche se variamente manifestantisi, fondamentali conflitti esistenziali o “strutturali” (quelli, ad es., individuo/società, maschio/femmina, vita/morte, natura/cultura, uomo/Dio o sacro/profano), antinomie che riflettono la complexio oppositorum della Totalità, vista non come immobile unità ma come contrasto («Ciò che si oppone coopera e la più bella trama si forma dai divergenti; e tutte le cose sorgono secondo contesa», Eraclito, fr. DK 8). Ricordiamo, infine, che tradizionalmente, nel buddhismo dei Nikaya venivano descritte tre forme di dukkha (o sofferenza/insoddisfacenza): dukkha-dukkha o sofferenza intrinseca, dovuta a eventi comuni ed evidenti, come malattie, vecchiaia, morte; viparinama-dukkha o sofferenza per il/nel cambiamento di situazioni piacevoli; sankhara-dukkha o sofferenza dovuta alle formazioni o costituzione dell’individuo, poiché oppresse dal sorgere e decadere: è l’insoddisfacenza e insufficienza dell’esistenza della vita basata su un instabile equilibrio e, possiamo aggiungere, dell’esistenza come esperienza di dualità o di mancanza. Benché possano configurarsi diversamente le risposte da dare al dolore derivante dagli errori e dalla volontà cattiva dell’uomo da quelle da dare al dolore derivante dalla struttura dell’esistenza, l’esperienza e la stessa possibilità del patire è stata pur sempre ricondotta a una “primordiale” frattura operatasi nell’“unità originaria” («Nulla può diminuire il concetto della divina totalità; ma, sfuggendo alla coscienza, si verificò una frattura, in quella interezza, e ne derivarono un regno della luce e un regno delle tenebre», Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, cit., p. 391) e il suo superamento definitivo a un ritorno/ricongiungimento alla Realtà ultima che, Totalità indefinibile, è al di là del giudizio e della dicotomia bene/male, piacere/dolore, vita/morte: siamo qui sul terreno delle religioni e delle tradizioni spirituali e, soprattutto, della ricerca di un senso da dare alla sofferenza («La psiconevrosi è in ultima analisi una sofferenza della psiche che non ha trovato il proprio significato», Jung, Opere, XI, 314). Per realizzare questo ricongiungimento sono state prospettate due fondamentali modalità: una basata sulla ipotesi di eliminazione del negativo (il male, per l’essere senziente), l’altra basata su un lavoro da fare sul soggetto piuttosto che sull’oggetto, a sua volta, con due differenti strategie.
I. Secondo la prima modalità, preso atto della debolezza e della insufficienza dell’uomo, le missioni di aiuto e di salvezza vengono affidate a qualche essere superiore e, in particolare, a divinità misericordiose. Nella tradizione ebraico-cristiana la salvezza non può essere raggiunta dall’uomo con le sue sole forze ma con l’intervento di un Messia/Salvatore/Redentore («Chi si potrà dunque salvare?». E Gesù, fissando su di loro lo sguardo, disse: «Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile», Mt 19, 25 s.). La salvezza promessa è totale e inaudita: la malattia, la morte, il dolore saranno sconfitti e definitivamente eliminati: il Signore «eliminerà la morte per sempre» e «asciugherà le lacrime su ogni volto» (Is 25), preparerà «un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti» (ibidem); e «tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate» (Ap 21, 4, 4). Si realizzerà l’approdo a un sabato senza tramonto, «riposo eterno dello spirito e del corpo. Là riposeremo e vedremo; vedremo e ameremo; ameremo e loderemo. Ecco ciò che sarà alla fine senza fine. E quale è infatti il nostro fine se non quello di pervenire al regno che non ha fine?» (S. Agostino, La città di Dio, XXII, 30, 5). Ma il ripresentarsi della sofferenza degli animali e dei bimbi innocenti continua a riproporre, senza trovare risposta, l’interrogativo sull’origine e il perché del male («Il vecchio problema posto dagli gnostici: “Da dove viene il male?” non ha trovato risposta nel mondo cristiano», Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, cit., p. 391): il mito del peccato originale (pur rendendo l’uomo responsabile del male ha almeno il merito di sottolinearne l’inaccettabilità) non riesce a dissipare l’oscurità dell’origine e della presenza del male (spostando solo la domanda al “prima” della caduta e al perché dell’inclinazione al male del primo uomo), inconciliabili con l’onnipotenza di un Dio summum bonum e provvidente («Si quidem deus […] est, unde mala? Bona vero unde, si non est?», Severino Boezio, De consolatione philosophiae, I, 4), fallimentari essendosi rivelati i tentativi di costruire una teodicea in grado di superare tale contraddizione, già evidenziata nel celebre tetralemma di Epicuro («La divinità o vuole abolire il male e non può; o può e non vuole; o non vuole né può; o vuole e può. Se vuole e non può, bisogna ammettere che sia impotente, il che è in contrasto con la nozione di divinità; se può e non vuole, che sia malvagia, il che è ugualmente estraneo all’essenza divina; se non vuole e non può, che sia insieme impotente e malvagia; se poi vuole e può, sola cosa conveniente alla sua essenza, donde provengono i mali e perché non li abolisce?» (framm. 374, Usener). Kant ne concluderà L’insuccesso di ogni saggio filosofico di teodicea (in Scritti di filosofia della religione, tr. it., Milano, Mursia, 1989, pp. 51-64). D’altra parte, la promessa non mantenuta illanguidisce nel tempo e la figura stessa del Redentore si è trovata progressivamente sempre più esposta al rischio di perdita di attendibilità, fino al totale rovescimento di ogni teodicea operato dal mondo moderno, come è stato espresso dalla famosa frase di Stendhal che, indignato contro la improvvida Provvidenza, diceva: «Quel che scusa Dio è il fatto che non esiste» (frase riportata da P. Merimé nel suo H. B. e della quale Nietzsche diceva «Che sia io stesso invidioso di Stendhal? Mi ha portato via la più bella battuta da ateo, che avrei potuto dire proprio io», Ecce Homo, in Opere, VI, 3, tr. it., Milano Adelphi, 1986, p. 294). Per questo, la più recente teologia, sempre nella prospettiva di conciliare la fede in un Creatore e Conservatore buono e onnipotente con la sofferenza delle creature, abbandonata la teodicea, ha proposto una visione molto più sottile e articolata di un Dio che crea per amore, si immerge nella (inevitabile?) sofferenza delle creature e la riscatta in una promessa di una gloria inconcepibile, prodotto dell’amore. La preghiera, esposizione a Dio del lamento che esige un senso per la sofferenza, porta in sé l’assicurazione dell’esaudimento se la speranza non è più soltanto finale ma diviene attuale (il Futuro promesso, la meta di tutti i giorni, è prossimo all’oggi e al domani, cfr. K. Barth) e se, purtuttavia, il patimento continua viene almeno modificata la qualità del patire. Si riscoprono così in modo nuovo le parole dell’Apostolo che scriveva: «Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne mortale» (2 Cor 4, 8-11). Dalla speranza del compimento potremmo dire che si passa al compimento della speranza; dal giorno futuro e finale, ove i giorni tutti confluiranno, l’accento si sposta su questo giorno presente, nel quale viene presentata un’anticipazione redentiva, ottenuta con l’integrazione del patimento attuale nel circuito dell’amore. A questo punto, al di là dell’impasse della teodicea, si possono anche presagire elementi di convergenza con la visione della sofferenza che è propria del buddhismo Mahāyāna.
Condividono l’obiettivo della eliminazione del negativo, tanto da essere considerate “eresie cristiane”, lo scientismo e l’utopia politica: da un lato, il raggiungimento di una perfetta salute e di una lunga, se non eterna, giovinezza da conquistare con lo sviluppo delle tecnologie biomediche sostituisce l’aspirazione alla salvezza (e tanto forte è il tentativo di rimozione della morte che la malattia o gli infortuni non sono più visti come operatori di destino, per cui non ci si ammala perché dobbiamo morire ma si muore perché ci si ammala: nessuno muore più di… mortalità, ma a causa di disgraziati accidenti, cioè di eventi potenzialmente controllabili); dall’altro, la promessa del regno dei cieli si tramuta nell’attesa della realizzazione di una società di liberi ed eguali.
II.1. La seconda modalità, quella propria dell’anti-intellettualismo, si è espressa in aspetti diversi che, tuttavia, hanno in comune la tendenza a operare sul soggetto, ritenendo che il male sia non nelle cose, ma nel giudizio e nella coscienza (il sé come origine e/o parte del negativo da eliminare o a cui rinunciare): più che a risolvere, questo atteggiamento tenderà quindi a dissolvere il problema, cominciando con la sostituzione dell’ottica dei processi a quella delle entità, essendo, quest’ultima, frutto anch’essa dell’intelletto dualistico-discriminante.
[…]II.2. Una volta assunto il punto di vista Mahāyāna, secondo il quale il samsara è in nulla differente dal Nirvana, tutti i concetti buddhisti subiscono una sorta di dilatazione cosmica, per cui il Buddha eterno diviene la rivelazione permanente, anatta la Vacuità, anicca la Realtà ultima dell’impermanenza equivalente alla natura buddhica (v. Dogen), e la nostra stessa pratica assume un altro significato e un’altra responsabilità. A questo punto, né l’una né l’altra modalità di liberazione dalla sofferenza saranno più proponibili: la prima, ovviamente, perché il “dramma familiare” istituito nel rapporto con le divinità provvidenziali alle quali demandare l’intervento redentivo viene a cadere una volta che esse si siano “estinte”, la seconda perché la “nuova” concezione del Nirvana comporta non la soppressione ma la valorizzazione del mondo fenomenico. Secondo l’insegnamento Tiantai/Tendai, «Qualunque sia l’oggetto del discernimento, esso è visto come identico al Mezzo; non c’è nulla che non sia la Realtà ultima» (Endon Shikan). Pertanto, se le “risposte” che abbiamo esaminato avevano cercato di abolire la domanda o estinguendo il soggetto nel Nirvana o soffocandolo nell’amore di Dio, la prospettiva della valorizzazione della realtà fenomenica non potrà escludere proprio la soggettività, essendone proprio l’espressione la più complessa ed elevata e il luogo dove si realizza la consapevolezza dell’Essere. Si ha, quindi, un passaggio dalla “riduzione” alla “intensificazione” del soggetto, passaggio per il quale potrebbe essere illuminante l’analogia con il concetto di Augmented Reality dell’attuale Computer Science.
[…]
Tratto da :
Riccardo Venturini, Ri-legature buddhiste, Roma, Edizioni universitarie romane, 2010