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Praticare shine

Shine

Lama Sherab Gyaltsen Amipa

 Chi costruisce una casa deve iniziare dalle fondamenta e non dal tetto. Anche nella pratica si deve procedere così, con la differenza che costruiamo un edificio spirituale.

Cosa significa Shi-ne? Shi significa la base, -ne significa rimanere. La pratica di Shi-ne significa dunque acquisire le capacità di man¬tenere la nostra concentrazione su di un oggetto.

Shi-ne è l’esercizio più importante per ogni pratica di yoga e di meditazione, senza però dimenticare che il nostro comportamento nella vita quotidiana è prioritario: la sola pratica della meditazione non basta.

L’insegnamento di Buddha si occupa sempre della via relativa e assoluta. La via relativa è un metodo che accetta l’esistenza della realtà esteriore. La via assoluta è invece la pratica di Bodhicitta e di Shunyata e della concentrazione particolare. Porta alla comprensione che ogni verità è infinita.

Per iniziare la costruzione di una casa dalle fondamenta, occorre compiere dei preparativi esterni ed interni. Se possibile dobbiamo scegliere un luogo tranquillo con aria ed acqua buone e mantenere un’alimentazione equilibrata. Questo favorisce la tranquillità dell’animo. Poi riflettiamo sui cinque ostacoli che possono interferire nella pratica Shi-ne: li dobbiamo conoscere e superare.

 I CINQUE OSTACOLI NELLA PRATICA DI SHINE

Il primo ostacolo è la pigrizia.

La pigrizia ha qui un significato particolare. Nella vita quotidiana fa si che non facciamo ciò che dovremmo. Pigrizia significa qui invece che non siamo interessati al karma, alle virtù, allo studio del Dharma. Ci impedisce lo sviluppo del nostro spirito. Ma se nella prossima vita vogliamo disporre di maggior compassione e saggezza, ci dobbiamo preparare già sin d’ora.

Se non raggiungiamo l’Illuminazione in questa vita, vi saremo più vicini nella prossima. La pigrizia è dunque il primo ostacolo nella pratica Shi-ne: dobbiamo cercare di evitarla. Il secondo ostacolo è la dimenticanza (sbadatezza)

Per la pratica di Shi-ne occorre una buona memoria. Essa è certo importante anche nella vita quotidiana; nella pratica ci protegge da errori.

Se l’insegnamento è ben saldo nella nostra mente, non percorre¬remo un cammino sbagliato; il corpo, la parola e la mente non compiranno allora azioni sbagliate.

 

Il secondo ostacolo è la dimenticanza (sbadatezza)

Per la pratica di Shi-ne occorre una buona memoria. Essa è certo importante anche nella vita quotidiana; nella pratica ci protegge da errori.

Se l’insegnamento è ben saldo nella nostra mente, non percorre¬remo un cammino sbagliato; il corpo, la parola e la mente non compiranno allora azioni sbagliate.

Se non ascoltiamo l’insegnamento con attenzione, corriamo il rischio di praticare in modo sbagliato. Sarebbe un po’ come voler scalare una montagna senza usare le mani: non andremmo lontano. E chi non ascolta attentamente, non può meditare correttamente.

Ci sono diversi tipi di insegnamento, come ad esempio i normali insegnamenti orali per i meditanti.

Il più importante è però l’insegnamento diretto, personale di un Lama esperto; è l’insegnamento che vien dato esclusivamente in forma orale. Un maestro ha due tipi di conoscenze: quella teorica che ha imparato studiando i testi e la conoscenza che gli deriva dalla sua pratica personale. Esse gli permettono di dare consigli personali che non dovremmo mai dimenticare.

Il terzo e quarto ostacolo sono una fede ed una fiducia insufficienti.

Il termine tibetano di fede è Ded-pa. Significa che tutto ne è ricolmo, tanto la parola quanto il corpo e la mente.

Fiducia in tibetano è Yi-che. Con la fede e la fiducia che riempio¬no in modo duraturo tutto il nostro essere, la nostra pratica diventa forte. Senza questa qualità siamo come un cieco che cammina in un parco desiderando di percorrere un certo cammino: gli può capitare di prendere la direzione sbagliata.

E così pure il risultato sarà diverso se abbiamo solo fede e fiducia, oppure anche saggezza, o nessuna di queste qualità. La saggezza, la fede e la fiducia ci mostrano il cammino.

La fede si basa sulla nostra conoscenza, sulla nostra certezza delle qualità di un comportamento o di un oggetto, ad esempio dei Tre Gioielli nella presa di rifugio. Se abbiamo capito le qualità del

Guru, le qualità del Buddha, se abbiamo capito il significato del Dharma e l’attività del Sangha la fede cresce dentro di noi spontaneamente. E tanto più approfondita è la nostra comprensione e tanto più lo sarà anche la nostra fede.

Ciò significa che fede non è assolutamente il credere in qualcosa che non si capisce, ma la convinzione che si ottiene dopo un esame accurato.

In questo senso possiamo sviluppare in noi fede e fiducia. Ciò significa che si ottiene sempre maggiore chiarezza sulla propria fede, sulla fiducia e sulla propria coscienza.

Il quinto ostacolo è la mancanza di attenzione.

Può succedere che durante la pratica cadiamo nella sonnolenza, cosi che la coscienza perde la sua chiarezza. Se ce ne accorgiamo, possiamo utilizzare tre potenti antidoti.

Pensiamo a tre cose:

1. Riflettiamo su quanto è importante la pratica diligente perché altrimenti sprechiamo questa vita preziosa. Il tempo scorre veloce e non è bene che trascorra senza il praticare.

2. Dobbiamo renderci conto che un giorno moriremo. Ma non sappiamo quando. Ci possiamo perd preparare già sin d’ora alla morte, sviluppando con la pratica la forza del nostro spirito e delle nostre virtù.

3. Dobbiamo ricordare che la nostra fede nel karma deve essere molto forte. Il karma è reale. Siamo tutti legati tra di noi dal karma. Se ora abbiamo una vita soddisfacente, se siamo in buona salute e in pace, la causa di ciò risiede anche nelle vite precedenti. Perfino le malattie fisiche e psichiche derivano da legami karmici che noi stessi abbiamo creato.

Se dunque la nostra mente diventa disattenta, incostante e pigra, ricordiamo questi tre punti. Cosi la nostra pratica si approfondisce di nuovo e i pensieri che ci disturbano scompaiono. Per la pratica di Shi-ne ci occorrono: diligenza, una buona me¬moria, fede, fiducia e attenzione. Cosi abbiamo costruito le basi della nostra casa; la nostra coscienza è vigile e dolce. Possiamo iniziare con la pratica di Shi-ne.

 

 ESERCIZI DI SHINE

Per la meditazione ci sediamo in posizione di loto o di semiloto. Se ciò non è possibile, ci sediamo in modo per noi confortevole. In ogni caso manteniamo la schiena dritta cosi che la respirazione e il flusso di energia non siano impediti.

Teniamo le mani nella posizione di Buddha Vairocana, ossia circa quattro centimetri al di sotto dell’ombelico, la mano sinistra sotto la destra. Il palmo delle mani è rivolto verso l’alto, i pollici si toccano.

Ora il nostro corpo è nella posizione corretta, i cinque ostacoli della pratica sono superati, la nostra mente è tranquilla (grazie, se necessario, ad un esercizio di respirazione, come ad esempio inspirare ed espirare ventun volte).

Scegliamo ora un oggetto su cui concentrarci. Ci sono oggetti esterni e oggetti interni. Oggetti esterni sono ad esempio i Tre Gioielli nei quali si prende rifugio (Triratna) e cioè Buddha, Dharma e Sangha oppure la figura di Buddha Avalokiteshvara, l’incarnazione di aurore e di compassione. Raccogliamo i nostri pensieri su un simile oggetto, con il deside¬rio profondo di raggiungerne le qualità.

Oggetti interni sono invece il nostro respiro, i chakra – i centri energetici del nostro corpo – nonché la nostra stessa coscienza. Mentre raccogliamo e manteniamo la nostra attenzione focalizzata in un punto, come meglio possiamo, dobbiamo tuttavia, al con- tempo, cercare di restare distesi. Perché non appena ci irrigidiamo durante la concentrazione, non possiamo più mantenere la nostra attenzione sull’oggetto. Perciò non lasciamo insorgere in noi inutili pensieri e soprattutto dubbi sul karma. Ma anche i pensieri positivi nella loro molteplicità ci possono arrecare disturbo. Perciò pratichiamo con pazienza, cerchiamo di essere calmi per evitare che la nostra mente sia disturbata.

LA COSCIENZA

La filosofia buddhista conosce diverse manifestazioni della coscienza e può essere difficile trovare nella terminologia italiana le parole corrette.

La coscienza ordinaria in tibetano è designata con Sem. In essa i nostri desideri e le nostre fantasie mutano ogni pochi secondi. Non la possiamo vedere ma sentire. Ha due condizioni fondamentali. Da un lato la condizione del Samsara caratterizzata da mancanza di chiarezza, da confusione: i pensieri corrono avanti e indietro e non trovano pace. La coscienza è disturbata, ma è sempre una nostra parte. Nello stato del Nirvana vi è invece soltanto chiarezza. In noi salgono sensazioni di pace e di gioia. Questa è la natura originaria della nostra coscienza, la natura di Buddha. Si può perciò dire che ogni cosa deriva dalla coscienza: le virtù, l’amore, la compassione ma anche le non virtù, l’odio, la sofferenza e l’ignoranza.

Sem è la base, il fondamento prezioso, di cui disponiamo sempre. E’ la nostra stessa coscienza, chiara e originaria. Sem esiste senza interruzione e consiste di una mente principale e di cinquantun fattori mentali.

Questi ultimi corrispondono alle nostre percezioni soggettive. La coscienza principale percepisce la realtà, ad esempio un fiore. I fattori della coscienza attribuiscono al flore, attraverso la nostra percezione, alcuni elementi di valutazione, come ad esempio la bellezza, il profumo, ecc. Da ciò deriva un sentimento di attaccamento o di non attaccamento o di neutralità.

Queste sono le tre qualità dei fattori della coscienza. Taluni ci portano ad un comportamento virtuoso, altri ad uno non virtuoso, altri ancora ad un comportamento né virtuoso, né non virtuoso. Se ora riferiamo quanto appena detto al fiore, ciò significa: “ Il fiore è bello, lo vogliamo soltanto per noi”.

Si tratta in questo caso di fattori non virtuosi della coscienza. Essi conducono sempre alla sofferenza.

“Il fiore è bello, desideriamo che non gli accada nulla, che possa fiorire indisturbato, che possa portare dei frutti”. In questo caso i fattori della coscienza sono di tipo virtuoso. Essi conducono sempre alla gioia.

“Il fiore è bello”. Qui si tratta di fattori neutri della coscienza.

Nella pratica del Samatha o Shi-ne è possibile trasformare le attività di corpo, parola e mente in azioni virtuose.

La coscienza Sem – cioè ordinaria – sviluppatasi in una coscienza superiore, è chiamata Rigpa.

In Tibet si usa l’immagine dell’elefante per illustrare la pratica del Samatha.

L’elefante rappresenta la nostra coscienza. L’elefante è un animale molto forte, ciò che significa che molto forti sono sia le sue virtù che le sue non virtù. All’inizio del suo cammino, cioè della pratica del Samatha, il suo colore è nero, cioè non virtuoso. Lungo la stra¬da il suo colore si trasforma via via, finché è bianco. Significa che la sua coscienza diventa sempre più chiara, che percorre un cammino pieno di virtù. Il disturbo della nostra mente provocato da pensieri che saltano qua e là, è invece rappresentato da una scimmia. Con la pratica Shi-ne cerchiamo di superare questa irrequietezza, finché la nostra mente si calma, finché non è più come una scimmia.

Per controllare lo sviluppo della nostra mente, occorre osservarla attentamente. All’inizio della pratica è rigida, concentrata solo su se stessa (sol¬tanto io). I pensieri che ci disturbano scorrono in noi come una cascata che precipita dalla montagna. Ma con i progressi nella pratica la nostra mente diventa come un lago la cui superficie è quasi immobile: ciò significa che i pensieri sbagliati ed i dubbi sono diminuiti.

I dubbi in particolare ci disturbano. Perciò per una buona prati¬ca è necessario allontanarli. Se continuano a disturbarci, dobbiamo chiederci da dove essi vengano. Ci sono due possibili cause: la mancanza di fede, una pratica modesta, poca conoscenza di noi stessi da una parte oppure una conoscenza insufficiente di una corretta pratica dall’altra. Per allontanare i dubbi è perciò necessario controllare esattamente la mente. Segni fisici e spirituali di progressi nello Shi-ne sono una sensazione di leggerezza, buona salute, uno spirito gioioso in cui si sviluppa una pace durevole. Nella misura in cui abbiamo imparato a rimanere ben concentrati nell’osservazione della nostra mente, i pensieri adagio adagio si calmano. Salgono allora in noi una gioia pura ed una pace infinita. Riconosciamo che il Dharma, in verità, non è mente altro che la natura originaria della nostra coscienza, la natura di Buddha.

Il termine Dharma ha però anche altri significati, ad esempio designa anche insegnamenti sacri e la via per l’Illuminazione.

In tutti i tipi di meditazione, utilizziamo la saggezza ed il metodo. Shi-ne e Bodhicitta sono il metodo. Vipashyana, la visione penetrante, è la saggezza. Ma senza Shi-ne e Bodhicitta non si può praticare Vipashyana poiché la nostra mente è troppo irrequieta.

 

Vipashyana , la Visione penetrante

Vipashyana significa saggezza, sapere senza ego. Se si vuole veramente la pace e la gioia ma si è fortemente con¬centrati su sé stessi, ci si ostacola sulla via. Lo stesso vale per l’attaccamento. Se il nostro vero obiettivo è lo stato del Nirvana, dobbiamo sape¬re che il Nirvana è già in noi; ma l’attaccamento ci è di ostacolo al raggiungimento di quello stato. La concentrazione su sé stessi e l’attaccamento sono due malattie radice. Fintanto che non ci siamo liberati da esse, la sofferenza ci accompagna dalla mattina alla sera. Siamo bloccati su ogni cammino, poiché viviamo nella dualità.

DUALITÀ

La dualità è sempre legata all’ignoranza. Ci conduce a posizioni opposte e a continua incertezza. Esserne liberi significa invece avere una sola posizione, quella corretta. Ma la liberazione dal Samsara non può essere ottenuta soltanto col sapere intellettuale. Bisogna anche sviluppare il sentire, raccogliere esperienze e prati¬care Shunyata. Ciò che più conta è il sentimento spirituale pieno di calore, poiché il grande sapere intellettuale può perfino accrescere l’ego. Per impedire un simile rafforzamento dell’ego, seguia¬mo la via della pratica di Mahamudra con Shi-ne e Lhag-thong. L’ego e l’attaccamento diminuiscono soltanto se osserviamo continuamente la nostra mente. Dobbiamo verificare scrupolosamente se si libera.

In caso contrario, dobbiamo conoscerne la causa. Ma è fonda¬mentale capire che tutto dipende da noi stessi. La causa di ogni disturbo è in noi, non al di fuori di noi. Crediamo che sia all’esterno soltanto perché non siamo ancora liberi dall’attaccamento. L’attaccamento causa le nostre percezioni sbagliate.

Soltanto senza l’attaccamento possiamo riconoscere le opinioni sbagliate e superare i dubbi. Soltanto quando avremo maggiore esperienza con Shi-ne, rispettivamente con Lhag-Thong, Bodhicitta e Shunyata e quando avremo dimestichezza con l’autosservazione – tib. Njal-djor – la nostra visione duale della realtà cambierà e diventerà corretta. Allora la nostra coscienza sarà in Samadhi. Allora avrà raggiunto la qualità per praticare Mahamudra.

 NJAL-DJOR

Njal-djor è il termine tibetano di Sadhana. Una Sadhana è un tema di meditazione con un oggetto esterno, ad esempio Buddha Avalokiteshvara, l’aspetto della compassione piena di amore e la nostra coscienza come oggetto interno. Njal significa che la nostra coscienza, con questo esercizio, diventa dolce, cioè piena di altruismo, con le qualità dell’amore e della compassione. Djor significa concentrazione. La mente entra nella meditazione. Njal-djor, come parola unica, esprime però anche i molteplici aspetti di Buddha come ad esempio Manjushri l’aspetto della saggezza, Avalokiteshvara, l’aspetto della compassione piena di amore, Tara, l’aspetto dell’attività o Vajrapani, l’aspetto irato. Anche la pratica delle quattro classi del Tantra è Njal-djor .

Un Njal-djor-pa e una Njal-djor-ma sono un uomo ed una donna che hanno esperienza nello sviluppo della coscienza.

SAMADHI

Samadhi o Yoga, in tibetano Ting-ne-tzin, ha molti significati. Significa concentrazione unita a visione, esercizio di yoga, ma anche una persona nella pratica o nello sviluppo superiore.

Per la pratica dello yoga sono necessarie tutte le Paramita, cioè: se si vuole praticare correttamente dobbiamo conoscere e praticare tutte le sei o rispettivamente tutte le dieci Paramita. Cosi facendo la parte di non virtù diminuisce e sentiamo in noi maggior gioia. Per parte non virtuosa intendiamo i pensieri negativi, i dubbi, la mancanza di fede, di amore e di compassione ed anche la mancanza di interesse per le virtù.

Non appena le non virtù diminuiscono, la nostra coscienza diventa chiara come il sole o la luna in un cielo senza nuvole. Questi sono i segni dello sviluppo interiore. Quando abbiamo realizzato questa chiara coscienza, siamo anche liberati dalle due malattie-radice: l’egoismo e l’attaccamento.

Talvolta ci chiediamo come ci si senta liberi dall’ego oppure ci chiediamo- cos’è l’ego o la coscienza?

L’ego e la coscienza sono due cose totalmente distinte. L’ego è l’errore che ci incatena a questo mondo e alla sofferenza del Samsara. Ego significa egocentrismo, cioè «soltanto io». E’ causa di attività errate, tiene i pensieri concentrati su sé stessi. Essi sono cioè molto stretti. Soltanto senza ego, essi si aprono e possiamo sviluppare il senti¬mento dell’importanza degli altri esseri viventi.

Per sviluppare una buona pratica, dobbiamo sapere esattamente cosa è l’ego e quale è la sua importanza. L’ego sta alla base. Dall’ego sorge l’attaccamento. Questi due fattori ci stringono e fintanto che non saremo liberati non godremo di libertà.

Nel nostro stato normale, ossia fintanto che non conosciamo la nostra mente, non possiamo distinguere se agiamo in modo corretto o sbagliato. Soffriamo di innumerevoli dubbi e perciò compia¬mo molti errori e diventiamo cosi ancora più insicuri. Ma mediante la pratica, lo studio, l’ascolto attento degli insegnamenti del Dharma, a poco a poco impariamo a capirci. Cosi facendo l’ego può venir diminuito. Tuttavia la conoscenza teorica non basta, occorre sviluppare anche la compassione. Allora le nostre azioni errate si fanno più rare, le nostre conoscenze del Dharma si approfondiscono, la nostra natura è più dolce. In questo modo, col tempo, sviluppiamo fede, fiducia in noi stessi e possiamo trovare la via per uscire dal Samsara.

A differenza dell’ego la coscienza individuale è continua sia nel Samsara sia nel Nirvana ed esiste immutabile al di là del raggiungi¬mento della Buddhità.

Ciò significa che ogni illuminato mantiene le sue caratteristiche specifiche, ma libere dall’ego, dall’attaccamento e dall’ignoranza. La coscienza comune contiene invece disturbi ed ignoranza: significa che possiede ancora karma positivo e negativo. Mediante la pratica, attraverso ad esempio gli esercizi di yoga, possiamo purificare le non virtù e l’ignoranza. Internamente diventiamo chiari, pieni di compassione e di saggezza.

C’è sempre meno ego ed attaccamento e sempre più coscienza chiara, pura. Si è raggiunto uno stadio superiore e si è trovata la via per l’Illuminazione.

Samadhi significa yoga di grande qualità. In una simile meditazione proviamo grande gioia. Grazie alla nostra visione totalmente modificata possiamo svilupparci ulteriormente mediante metodo e saggezza, ossia esercitare un Samadhi ancora più elevato, cosi come praticarono i grandi Mahasidda, come ad esempio Nagarjuna e Virupa.

In questo modo raggiungiamo Mahamudra. Agiamo ora soltanto per il beneficio di tutti gli altri esseri. Questo è Yeshe, la qualità dello spirito. Significa liberazione dall’ignoranza ed il raggiungimento di Shunyata.

Ora possiamo riconoscere in noi la nostra coscienza preziosa, la nostra natura di Buddha ancora più chiaramente. Viviamo quel momento con grande gioia, come i genitori che accolgono tra di loro un figlio lontano da tempo. Ma anche questo esempio non esprime in modo completo la nostra gioia profonda, poiché si tratta della nostra coscienza originaria che avevamo perso e che ora ritroviamo.

La nostra coscienza può essere ora paragonata ad un palazzo pieno di gioia. Nel linguaggio religioso si dice che la nostra coscienza è come il Mandala. Questo stato non conosce differenza tra Samsara e Nirvana: tutto è Nirvana.

Anche questo è una qualità di Mahamudra.

Se si sentono queste descrizioni, si potrebbe pensare che Mahamudra sia ad un’altezza irraggiungibile, ma non è all’infuori di noi, bensì dentro di noi. Certo non è facile da realizzare.

 

Tratto da Mahamudra, la grande via per l’illuminazione ed. ARCA 1998

Lama Sherab Gyaltsen Amipa, nato nel 1931 nel Tibet occidentale, dopo aver seguito gli studi classici della tradizione Sakya e aver conseguito il titolo di geshe rajampa , iniziò ad insegnare presso i principali monasteri. Fuggito dal Tibet nel 1967 si stabilì in Svizzera per seguire la comunità tibetana in esilio cominciando nel frattempo a creare centri di meditazione in varie parti d’Europa. La sua sede principale è presso Strasburgo ma vi sono altre comunità in Germania, Olanda e in Italia a Trieste in cui dà regolarmente insegnamenti.