01 Apr Perché il buddhismo ha bisogno dell’Occidente.
Il Dharma è un dono che l’Occidente ha ricevuto dall’Oriente e che oggi può ricambiare.
In un’affermazione spesso citata, ma che potrebbe essere apocrifa, lo storico britannico Arnold Toynbee sembra aver detto: “L’arrivo del buddhismo in Occidente potrebbe essere uno degli eventi più importanti del XX secolo”. Dati gli enormi cambiamenti sociali, politici e scientifici dell’ultimo secolo, sembra abbastanza improbabile. Ma Toynbee può aver notato qualcosa che alcuni di noi hanno bisogno di comprendere meglio: che l’interazione tra il buddhismo e l’Occidente oggi è cruciale, perché ognuno di essi enfatizza qualcosa che l’altro lascia da parte. Non importa se Toynbee abbia effettivamente fatto o no quell’affermazione, in ogni caso il significato di questo incontro potrebbe essere assai vicino a quanto la citazione ci suggerisce.
Per molti occidentali convertiti al buddhismo, l’affermazione che il buddhismo offra ciò che all’Occidente manca, sembra abbastanza ragionevole.
Dopotutto sono dei convertiti. Ma credo anche che sia vero l’opposto: l’Occidente offre qualcosa ugualmente importante per il buddhismo, qualcosa di cui buddhismo ha bisogno, se vuole adempiere appieno alla sua visione sul potenziale umano. In un modo di cui non sembrano neanche essere consapevoli, buddhismo e Occidente hanno bisogno l’uno dell’altro per completarsi. A molti partigiani di entrambe le tradizioni quest’idea potrebbe sembrare assurda, persino insultante. Certamente è una sfida. Ma soprattutto è una speranza.
In un suo libro del 1969 Earth House Hold, il poeta e saggista Gary Snyder scrisse: “ La ricchezza offerta dall’Occidente è stata la rivoluzione sociale, la ricchezza offerta dall’Oriente è stata la visione dentro il proprio sé/vuoto. Abbiamo bisogno di entrambe.” Con il passare degli anni quest’osservazione è stata riportata molte volte da quelli che vogliono sottolineare un maggior impegno sociale del buddhismo. La sfida è nel comprendere meglio la relazione tra i due: la ricchezza offerta dall’Oriente e la ricchezza offerta dall’Occidente.
Quale ricchezza può offrire buddhismo all’Occidente? Per quelli che leggono questa rivista, la risposta a una tale domanda può essere già abbastanza chiara, ma vorrei precisarla. Gli insegnamenti buddhisti enfatizzano la connessione fondamentale tra la sofferenza (dukkha) e l’assenza di un sé inerente (anatta).
Perché siamo così costantemente insoddisfatti? È perché il nostro senso del sé, essendo una illusione, è incapace di trovare una soddisfazione duratura.
Siamo incapaci di trovare la felicità nelle nostre vite perché siamo colpiti dal senso che “ qualcosa è sbagliato”, qualcosa che non comprendiamo e i tentativi di risolvere il problema guidati dal nostro io rendono solo le cose peggiori. Secondo il buddhismo, il sé, proprio per la sua natura illusoria, è esso stesso dukkha.
In termini più vicini a noi, il senso del sé è una costruzione psicosociale: psicologica perché è il risultato di un condizionamento mentale e sociale perché si sviluppa in relazione con gli altri. Dal momento che il mio senso del sé è composto di modi abitudinari di pensare, di sentire, di agire, di lasciar andare e di abitudini mentali, con una pratica come la meditazione è come un spellare una cipolla. Attraverso la pratica si può con il tempo realizzare la vacuità – la mancanza del sé- al proprio interno. Risvegliarsi significa riconoscere che la consapevolezza è non duale : perché “io” non sono dentro, il resto del mondo non è “fuori”.
Nel contesto dell’etica sociale, questo riconoscimento implica che senza la trasformazione individuale, la trasformazione sociale è compromessa. Perché molti movimenti riformisti o molte rivoluzioni si sono fermate mettendo al posto di un gruppo di teppisti, un altro gruppo? Perché, molti buddhisti diranno, se non ci rivolgiamo a quelli che sono il nostro odio, la malevolenza e l’illusione (i tre fattori motivazionali negativi conosciuti anche come i “tre veleni”), i nostri sforzi di cambiarli in forma collettiva sono in ogni caso inutili o provocano perfino risultati peggiori. Di certo la storia ci offre molti esempi di leader tirannici, che nascono da movimenti in cui gli scopi iniziali erano certamente giusti.
Ma aspettate un momento… che cosa il buddhismo ha a che fare con i movimenti politici? Il buddhismo, e spesso si risponde in questo modo, è un sentiero spirituale individuale e non una piattaforma per cambiamenti sociali. Il problema con questo modo di pensare è che non è sempre chiaro quando una cosa finisce e quando un’altra inizia. Il buddhismo è certamente basato sul far finire dukkha trasformando i tre veleni, che sono però molto più tossici quando infettano un governatore, che facilmente può – e spesso lo fa- creare una dukkha diffusa. In quanto buddhisti dobbiamo considerare quanto la sofferenza sia perpetuata dai condizionamenti sociali e politici così come dalle tendenze individuali.
Sappiamo che il Buddha storico ha applicato i suoi insegnamenti al mondo sociale con una visione e un vigore unici per una figura religiosa del suo tempo e dei luoghi in cui viveva. Nelle scritture più antiche sono molti i punti in cui il Buddha sfida le abitudini sociali prevalenti e chiede le riforme. Tuttavia l’analisi sociale e le critiche hanno un ruolo marginale nel corpus degli insegnamenti. L’enfasi maggiore degli insegnamenti del Buddha è rivolta al problema della sofferenza individuale e il suo pensiero sulla società non è mai stato elaborato in un modo sofisticato o sistematico. Come risultato, dopo che il Buddha scomparve, il sangha ovvero la comunità monastica per la maggior parte si adattò alle forme sociali e alle norme della culture asiatiche. Il buddhismo storicamente ha teso ad accettare passivamente e, qualche volta, a sostenere attivamente delle consuetudini sociali che ora ci sembrano ingiuste.
Nei paesi buddhisti asiatici, per esempio, la comunità monastica spesso è stata unita al governo reale. In queste culture, i governanti non erano solo patroni o difensori della comunità, servivano da ideali culturali simboli viventi dell’ordine sociale, interpretavano un ruolo che era necessario per mantenere l’armonia fra lo Stato e il cosmo. In altre parole, il loro ruolo era sia religioso che politico. Il sangha generalmente accettava questa visione e con essa qualsiasi ingiustizia che poteva far parte di quella struttura sociale , per cui sfidare l’ordine della società era in un certo senso rivoltarsi contro l’ordine dello stesso cosmo. Questo stato delle cose poteva essere e, molto spesso è stato, giustificato con una interpretazione semplicistica della dottrina buddhista del karma. La visione che ci sia una relazione infallibile e precisa tra causa /effetto, fra l’azione personale e il proprio destino implica che la giustizia è già costruita nel modo stesso in cui le cose avvengono. Il karma ha così offerto una razionalizzazione per la discriminazione basata sull’etnia, la casta, la classe, gli handicap fisici, la malattia e così via. Ha anche giustificato l’autorità di quelli che avevano il potere economico e politico e la subordinazione di quelli che non l’avevano.
Secondo gli standard moderni questo è un esempio di mistificazione collettiva. Ma questo modo di vedere la società è proprio dell’Occidente, radicato nelle idee originarie dell’antica Grecia, particolarmente di Atene. Il pensiero dei greci, che iniziò svilupparsi all’incirca nello stesso periodo del buddhismo, era rivoluzionario nel senso che sfidava le false idee sulla società – tanto quanto era rivoluzionaria la sfida del Buddha sulle idee illusorie rispetto al sé. Per le società non esposte a queste idee era normale vedere la loro struttura sociale come qualcosa di inevitabile: come qualcosa che rifletteva un ordine naturale o una volontà divina. In Occidente questo modo di pensare fu contestato e superato.
I greci fecero una distinzione tra nomos – le norme o le convenzioni della società umana (incluse la cultura, la tecnologia è così via) e la physis, il mondo naturale. I greci compresero che, a differenza della natura, tutto ciò che è una convenzione sociale può essere cambiato: possiamo riorganizzare le nostre società e in questo modo determinare o almeno cercare di determinare il nostro destino.
Le società tradizionali non compresero queste distinzioni.
Senza la comprensione dello sviluppo storico e quindi di un futuro possibile, i popoli premoderni generalmente accettavano le loro strutture sociali come un dato inevitabile, come qualcosa di naturale quanto i loro locali ecosistemi. Quando i governanti erano sconfitti, dei nuovi ne prendevano il posto in cima alla piramide sociale, che era anche piramide religiosa: i re erano dei o simili a dei, a causa del ruolo speciale che giocavano nel mantenere l’armonia con i poteri trascendenti che permettevano al cosmos di esistere.
Noi definiamo i greci umanisti per questa grande scoperta che sfida le visioni religiose che sostenevano il tradizionale ordine sociale; il mondo umano poteva decidere per se stesso e decidere come vivere.
Oggi nel mondo moderno manteniamo questa concezione come base per la nostra vita e per la nostra visione del mondo. In un certo senso è stata un punto cardine come la visione del Buddha rispetto alla vacuità del sé. Come il senso del sé nasce dipendendo da condizioni così accade anche per le situazioni sociali politiche nelle quali viviamo. Sé e società sono entrambi impermanenti, contingenti e quindi suscettibili di cambiamento.
Un insieme non comune di condizioni culturali incoraggiò questo sviluppo nella Grecia classica. L’attitudine ironica e distaccata di Omero nei confronti degli dei non favorì la nascita di un libro sacro, né la proclamazione di dogmi e né la stabilizzazione di una classe clericale forte. Le flotte mercantili dei greci si diffusero in un grande movimento di colonizzazione, che espose questo popolo ha diverse culture e incoraggiò lo scetticismo nei confronti dei loro propri miti. Talete fondò la filosofia naturale quando non utilizzò più gli dei per spiegare il mondo. Diversamente da Mosé o Mohammed, Solone non ricevette le sue regole da una sorgente divina, quando diede ad Atene delle nuove leggi. La drammaturgia greca ridusse il ruolo degli dei, enfatizzando le motivazioni umane e la responsabilità. La filosofia di Socrate cercava la verità che non dipendeva dagli dei.
Con l’aiuto di alcuni importanti uomini di governo Atene fu capace di riorganizzarsi più o meno pacificamente. Solone limitò il potere dell’aristocrazia ammettendo al governo le classi inferiori, Clistene rimpiazzò il tradizionale sistema tribale di Atene con dieci distretti organizzati secondo i luoghi di residenza. Pericle estese l’accesso ai pubblici uffici ai cittadini di umili origini. Il risultato fu unico sebbene limitato, fu sperimentata una democrazia diretta, anche se donne e schiavi non vi partecipavano.
Non tutti amavano la democrazia. Platone per esempio proponeva in due dei suoi dialoghi, la Repubblica e Le leggi un piano più elitista per ristrutturare le città stato greche. Ma questa visione alternativa presupponeva ugualmente la stessa distinzione di base che i greci avevano stabilito tra phusys e nomos, natura e convenzioni sociali.
Virtualmente ogni movimento di giustizia sociale nei tempi moderni – l’abolizione della schiavitù, i diritti civili, il femminismo, i diritti dei lavoratori, l’antiapartheid – è una conseguenza di questa distinzione. Le varie rivoluzioni che, nel bene e nel male, hanno ricreato il mondo moderno – la rivoluzione inglese, quelle americana, francese, russa, cinese e così via – tutte queste hanno alla loro base la comprensione che se un regime politico è ingiusto e oppressivo deve essere cambiato, perché tali sistemi sono costruzioni umane e possono quindi essere sostituiti.
Ma parlando di queste rivoluzioni possiamo anche ricordare degli orrori di Stalin, Mao, Pol Pot e altri, rivoluzioni che si mutarono in regni del terrore. Le rivoluzioni, abbiamo imparato, non necessariamente implicano pietà.
L’esperimento greco con la democrazia fallì per le stesse ragioni per le quali anche i nostri moderni esperimenti di democrazia possono correre il pericolo di fallire. È la ragione che ho menzionato prima: se la ricostruzione sociale non è accompagnata da una trasformazione personale, la democrazia libera solamente l’egoismo. Se sono ancora motivato dall’avidità, dalla malevolenza e dell’illusione, la mia libertà può essere pericolosa per me stesso e per gli altri. Finché l’illusione di un sé individuale separato dagli altri rimane forte, la democrazia – nonostante innumerevoli tentativi che sono stati fatti per creare dei sistemi di salvaguardia – non può aiutare, ma in realtà può offrire l’opportunità per alcuni individui di avvantaggiarsi sugli altri.
Gli ateniesi furono consapevoli di questo problema abbastanza rapidamente. Secondo il sociologo Orlando Pattern, l’individualismo greco “ era radicato nella tradizione omerica della fama personale, della gloria ed era stato nutrito dalla competizione abituale nell’arte e nei giochi atletici e anche nella commercio, anche fuori dai campi di battaglia con poco interesse a lavorare in gruppo”. Quest’individualismo “era temperato da un modesto senso di responsabilità morale o in particolare di altruismo “. Ben presto divenne ovvio che gli “appetiti privati” erano quelli che motivavano le persone a corrompere il processo democratico. Demostene si lamentava che la politica era diventata la strada per la ricchezza per degli individui, che non ponevano più lo Stato prima di se stessi, ma lo vedevano piuttosto come un modo per promuovere i propri vantaggi personali. Il disgusto di Platone per la democrazia è esplicito nella Repubblica in cui egli dice che la troppa libertà incoraggia una mancanza di autocontrollo che tende ad arrendersi alle più forti pressioni del momento – una ricetta per lotte sociali, e anche psicologiche.
Ci suona abbastanza familiare, sebbene oggi piuttosto che l’ appetito privato è l’avidità istituzionalizzata a sovvertire il processo politico. Distinguiamo ancora tra economia e governo, ma ai massimi livelli facilmente le stesse persone possono scambiarsi i ruoli, avanti e indietro tra ruoli di governo e ruoli economici, perché condividono la stessa visione di autoreferenzialità: una continua crescita economica è la cosa più importante per tutti e mette in ombra tutti gli altri temi sociali ed ecologici. Come Dan Hamburg ha detto a conclusione del suo anno al congresso degli Stati Uniti: “ Il governo reale del nostro paese è l’economia, dominata dalle grandi corporazioni che guidano lo Stato a compiere ciò che a loro serve. Favorire un ambiente sicuro in cui le corporazioni e i loro investitori possono fiorire è l’obiettivo primario di entrambi i partiti politici.”
Da una prospettiva buddhista, sarebbe semplicistico aspettarci una trasformazione sociale che si compia senza una trasformazione personale. Ma la storia del buddhismo ci mostra che possibile anche il contrario: sebbene il Buddhadharma si focalizza sulla promozione del risveglio individuale, non può evitare di essere toccato dalle forze sociali, che lavorano per mantenerci addormentati e sottomessi. È proprio grazie all’Occidente che queste forze sociali non hanno più bisogno di essere mistificati come naturali e inevitabili.
Per i buddhisti moderni, il mondo ci mostra quotidianamente che la nostra personale illuminazione non può rimanere indifferente a ciò che accade al per l’illuminazione degli altri.
Come viene sottolineato dal vecchio paradosso sociologico: le persone creano la società, ma la società crea anche le persone. I nostri sistemi politici ed economici non sono spiritualmente neutri, inculcano determinati valori e ne scoraggiano altri. Man mano che la nostra consapevolezza diventa più liberata, diventiamo più attenti alla sofferenza degli altri e alle forze sociali, che aggravano o fanno diminuire questa sofferenza. Il sentiero del bodhisattva non è un sacrificio personale, ma uno stadio ulteriore della pratica: se non sono separato dagli altri, come posso essere pienamente illuminato se anche gli altri non lo sono? Oggi il nostro mondo richiede nuovi tipi di bodhisattva, che trovino nuovi modi per rivolgersi alla sofferenza, dukkha, così come è istituzionalizzata nella nostra vita politica e sociale.
I tentativi occidentali per la ricostruzione sociale e collettiva hanno avuto un successo limitato, perché sono stati compromessi dalle motivazioni guidate dall’io. Anche il Buddhadharma ha avuto un successo limitato, se la misura del suo successo si basa sull’eliminazione della sofferenza e dell’illusione, perché fino ad ora il buddhismo non è stato capace di sconfiggere l’illusione insita nelle gerarchie sociali oppressive che giustificano se stesse come assolutamente benefiche e necessarie. Ognuno è stato limitato perché manca di qualche cosa che l’altro ha; la loro convergenza oggi apre a nuove possibilità. Ognuno può trovare nell’altro la prospettiva di cui ha bisogno per realizzare le sue più profonde promesse.
David R. Loy, nato a Panama nel 1947 , per lungo tempo professore di filosofia alla Bunkyo University di Chigasaki in Giappone, oggi insegna alla Xavier University in Cincinnati. Nel 1971 iniziò a praticare lo zen con Robert Aitken Roshi alle Hawaii ed è stato autorizzato ad insegnare nel lignaggio Sanbo Kyodan dopo aver completato il training formale sui koan con il maestro Yamada Koun Roshi.Ha scritto molti libri e articoli sul rapporto tra Buddhismo e società occidentale e tra buddhismo e cristianesimo.
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