21 Feb In relazione con noi stessi
di Ayya Khema
Tratto da Be an Island unto yourself,Sri Lanka, 1986, Discorso VIII
Il sutra sull’amorevolezza spiega come interagire con gli altri, ma non ci dice nulla di specifico su che cosa fare rispetto a noi stessi, una lacuna che va colmata.
Il discorso sull’amorevolezza (Karaniya Mettā Sutta) ci illustra come interagire con gli altri: dobbiamo trattarli come se fossero nostri figli, ma non dice nulla di specifico su che fare rispetto a noi stessi né come comportarci nei nostri stessi confronti. Eppure il modo in cui ci trattiamo è probabilmente lo stesso che usiamo con gli altri. Il modo in cui ci comportiamo con gli altri è di certo lo stesso in cui ci comportiamo con noi stessi.
Dal momento che ognuno di noi si occupa principalmente di sé, è molto importante, quando ci si trova di fronte un’altra persona, avere un’idea sulle nostre aspirazioni. Pensare di affrontare il mondo per mezzo e a causa delle nostre relazioni con gli altri, resta un’idea, un concetto. In effetti, nelle relazioni ci confrontiamo costantemente con le nostre debolezze e i nostri punti di forza e rispondiamo di conseguenza. Ciò che succede intorno a noi è solo una conseguenza di incastri che mettono in evidenza i nostri stimoli interni.
Il mondo che ci circonda è composto di situazioni, esperienze e persone con cui interagiamo per mezzo dei sensi. Il più forte dei sensi è la mente, il dispositivo del pensiero, che, inoltre, ha l’antipatica tendenza a essere fuori controllo. Noi non partecipiamo realmente a ciò che accade per la buona ragione che non sappiamo che cosa stia succedendo. Siamo interessati a ciò che crediamo stia succedendo. Alla base delle cose che possono accadere ci sono due modi di pensare: la paura o la speranza. Nessuno dei due è realistico. Le speranze sono desideri infondati e le paure sono preoccupazioni infondate. Entrambe creano confusione: le speranze sono mescolate al timore che non si realizzino. Ogni aspirazione vissuta contiene un’ansia non ancora materializzata, che forse non si sperimenterà mai! Né si materializzerà. I timori sono legati anche alla speranza. Forse non si verificheranno se negoziamo le cose con abilità e, di nuovo, abbiamo paura di non essere abbastanza intelligenti…
Ci troviamo così in una situazione di tensione e disagio, che siamo soliti alleviare con ogni tipo di distrazione. Cerchiamo di ridurre le tensioni con il cibo, le bevande, gli svaghi, la parola o il sonno. Tutto va bene. Per il mondo abbiamo i giornali, la televisione, il telefono. Se non riusciamo a trovare nulla, ci abbattiamo o ci irritiamo.
In realtà, questa dispersione/proliferazione (papañca) comincia perché la mente si permette la libertà di rimanere fuori controllo. Invece di occuparsi di ciò che accade realmente, viene lasciata andare in tutte le direzioni: a pensare al futuro con paura o speranza, a pensare al passato con rimpianto o nostalgia.
L’obiettivo è stare attenti in ogni momento, ma l’attenzione perfetta è difficile da realizzare, in quanto la mente tende a disperdersi. Dobbiamo far di più che dirci di stare attenti. Se stessimo attenti, perfettamente in ogni momento, questa dispersione non si verificherebbe. Non sarebbe possibile. Ma poiché non stiamo attenti, abbiamo bisogno d’aiuto per mantenere il nostro equilibrio. Una mente sana è una mente ben equilibrata. Una mente sana è una mente che non parte per la tangente. Non è preoccupata, depressa e timorosa, o esuberante sul nulla. Per godere di una mente ben equilibrata non è sufficiente dirci: «Stai attento». Se ne fossimo capaci, non avremmo bisogno d’altro. Tutto andrebbe liscio.
Una delle cose migliori da fare per aiutarci è non sottovalutarci. Apprezzarsi per il proprio vero valore non comporta alcun senso di superiorità o spirito di competizione «Posso farlo meglio di te» o «Qualunque cosa tu faccia, io posso farla meglio». Niente di tutto ciò! Stimare non significa enumerare tutte le cose che sappiamo. C’è un enorme divario tra le conoscenze personali e ciò che facciamo. È inutile pensare alle nostre conoscenze, ma è utile pensare a ciò che abbiamo già realizzato. Niente ha importanza se non ciò che facciamo realmente. Ciò che non potremo fare un giorno, oggi non ha alcuna pertinenza. Ciò che sappiamo è immateriale. Ma ciò che facciamo veramente ha una conseguenza. Se vogliamo stimarci, dobbiamo ricordarci delle nostre azioni, di quelle sane.
Per noi è positivo essere felici con noi stessi. Se non siamo in grado di creare un tale sentimento, non lo saremo mai da nessuna parte o con chiunque. Dobbiamo vivere con la persona specifica che siamo ancora a lungo. Non va in esilio né viene spedita altrove. Se non provo alcuna felicità con «me» come potrò trovarla con qualcun altro, o qualcos’altro? Chi siamo è sempre il vero ostacolo. La prima e principale priorità è quella di trovare piacere nel vivere con se stessi.
Il Karaniya Mettā Sutta lo esprime molto bene. Questo testo consiglia di essere pienamente felici e facilmente soddisfatti. Cita quindici condizioni favorevoli alla pace. Senza trovare queste quindici qualità in noi, non troveremo la pace da alcuna parte.
Essere abbastanza contenti interiormente significa essere soddisfatti di ciò che abbiamo, del nostro aspetto, delle nostre parole, delle nostre vite, delle nostre reazioni. Tutto deve essere tinto di contentezza. Ciò non significa che non possiamo migliorare. Ma se la sensazione di una mancanza grave in sé stessi continua, niente andrà bene. La tensione generata dal desiderio di qualcosa di diverso esisterà sempre. Il desiderio è tensione, non essere soddisfatti. La causa di ogni ambizione è sempre l’insoddisfazione personale, dukkha. Più lasciamo andare il desiderio, più lasciamo andare dukkha. Per lasciare andare il desiderio, dobbiamo accontentarci di ciò che c’è.
Forse ciò che c’è non è esattamente ciò che ci aspettiamo. Ognuno ha aspettative. Noi tutti speriamo qualcosa per noi e per gli altri. Non avere aspirazioni è irrealistico. Ogni tentativo non tiene conto della mancanza di permanenza (anicca). Tutto è in continua evoluzione. Una cosa, forse, andava perfettamente bene per un po’, ma ora non va più. Come potremmo riuscire a sentirci soddisfatti in situazioni giudicate più o meno insoddisfacenti? In primo luogo, osserviamo la situazione un po’ più da vicino. «Che cos’ha di insoddisfacente? Perché è insoddisfacente? Che cosa c’è di sbagliato? Che cosa non ci offre? In che cosa non sostiene il nostro ego, non si conforma alle nostre aspettative?». Una volta che avremo visto ciò che la rende spiacevole, ci renderemo conto che è una bagatella di cui non vale neanche la pena di parlare.
Quando qualcosa resiste interiormente, la generatrice di tensione è sempre dukkha, i desideri insoddisfatti; allora perché non ricordiamo le seguenti cose: «La mia natura è di morire. Non posso evitare la morte». Nulla mi dice che morirò tra cinquant’anni. Forse, morirò tra cinque minuti». Perché non tenere peresente quest’idea? Tenere a mente la morte non è morboso, né deprimente. È una riflessione che ci porta un passo più vicino alla realtà, perché è la verità. Avremmo reagito con lo stesso risentimento se avessimo saputo di avere solo dieci minuti di vita? Perché non provare questa tecnica? Vi garantisco che se ci ricordiamo che non ci restano che dieci minuti da vivere, nessuna delle nostre reazioni andrà sprecata per cose futili, ad alimentare la scontentezza. Può darsi che la morte ci spaventi. La paura viene dall’odio. A che pro odiare una scadenza inevitabile? Perché dovremmo odiare ciò che deve comunque accadere? È un atteggiamento stupido, ma comune alla maggior parte delle persone. Ecco una delle nostre innumerevoli assurdità! Per essere in relazione con noi, in modo soddisfacente per noi e per gli altri, la felicità è della massima importanza. Quando tutto intorno a noi sembra creare caos e scompiglio, torniamo a noi e alla bontà innata. Ritorniamo a ciò che è puro. Non ci potremmo chiarire se non avessimo un nucleo interiore puro. Se fossimo sporchi, se non ci fosse un piccolo pezzo di purezza, ci sarebbero poche possibilità di purificazione. La nostra purezza deve essere ampliata, coltivata e utilizzata. Quando siamo preda di inquietudini e paure, di avversione o sofferenza provocate da un desiderio inappagato, torniamo al nostro centro, dove si trova la felicità. La possiamo trovare dentro di noi.
Difendiamo tutti la falsa idea che la felicità dipenda da determinate condizioni o da determinate persone ― un altro dei nostri capricci. Come può dipendere da qualcosa di esterno a noi? Se optiamo per una pace reale, questa può venire solo dal nostro potenziale interiore, sempre disponibile. Le persone e le situazioni che rendono felici diventano una dipendenza, nel senso che ci rendono schiavi degli altri. Nessuno vuole essere uno schiavo, tutti noi vogliamo essere totalmente liberi.
Troviamo la felicità vivendo nel nostro stato di purezza, che è indipendente e non è soggetto alla delusione causata dall’impermanenza. L’unica cosa da cui dipende è data dall’attenzione che le prestiamo. Non conosciamo altro che le cose che osserviamo consapevolmente. Avete provato a prestare attenzione a ciò che è sano, buono, intelligente e utile? Cercare di prestare attenzione unicamente a questo conduce alla felicità. Non fate attenzione ad alcun’altra cosa. Tornate sempre alla purezza originaria.
Nella vita, il senso di gratitudine ci è di grande aiuto. Non c’è bisogno di rivolgersi a qualcuno o qualcosa di speciale. Possiamo provare gratitudine per le condizioni karmiche che ci hanno permesso di effettuare uno sforzo reale, provare gratitudine per la possibilità di avere un corpo in condizioni relativamente buone. Questo non significa dare una cosa positiva per scontata. Più le persone sono ricche e più prendono i loro privilegi come acquisiti. Quanto più godono di buona salute, quanto più hanno maggiori possibilità, tanto più considerano questi benefici come acquisiti. Questo atteggiamento non provoca felicità. Solo la gratitudine per le condizioni positive genera felicità.
Se non coltiviamo un atteggiamento corretto nei confronti di noi stessi, la sensazione di star bene nella nostra pelle, la sensazione di poterci riposare e rilassare dentro di noi, non ci sentiremo mai a casa ― là dov’è il nostro cuore e non solo dov’è il nostro corpo. Quando il nostro cuore si apre, nasce un senso di stima, gratitudine e felicità, di benessere verso noi stessi: siamo a casa. In questo modo saremo a casa nostra dappertutto su questa terra, dappertutto in questo universo.
La nostra dimora non dipende da una casa, da quattro mura. Dov’è la nostra casa? Cerchiamo di trovarla nel cuore, solo là. Una buona casa deve avere calore, specialmente quando il mondo esterno sembra freddo. Dove può esserci questo calore se non nei nostri cuori? È il luogo in cui dobbiamo creare il comfort che cerchiamo, il benessere che desideriamo, la felicità che cerchiamo, la pace così fugace. Il cuore è il centro della creazione, il centro dove si deve restare soprattutto quando insorgono difficoltà. Quando tutto va bene, ognuno considera tali condizioni dovute. Ma quando insorgono difficoltà, ci guardiamo intorno e cerchiamo aiuto. Questo aiuto è nel cuore, sempre lì, se gli abbiamo creato una base solida, con un fondamento sicuro, accogliente e amorevole.
Dipendere dagli altri per la nostra felicità è sciocco, è il minimo che possiamo dire. Dipendere dagli altri per la nostra sicurezza è assurdo. Come possiamo fare affidamento su qualcuno che cerca la propria felicità e anche la propria sicurezza? Solo la persona che le ha trovate, possiede qualcosa di prezioso ― una buona casa. Essere centrati sulla propria felicità e sicurezza dà la possibilità e la capacità di resistere a tutti i problemi e difficoltà che possono sorgere all’esterno. Nel mondo, nessuno va esente da crisi e/o difficoltà, dukkha. Solo se troviamo il centro, sappiamo dove andare in caso di difficoltà: nel cuore. Le pressioni possono essere minime, ad esempio, troppe persone che chiacchierano tutte insieme, domande pressanti, speranze non realizzate, qualsiasi tipo di difficoltà. Il cuore è sempre il posto dove andare. Tornare a casa, nel cuore, dove c’è calore, stima, gratitudine e soddisfazione. Questo è ciò che dobbiamo imparare a fare. Non viene da solo. Il modo per imparare è di abbandonare ogni pensiero malsano e trattenere solo ciò che è sano, utile, benefico e positivo. Più avremo pensieri negativi e più questo essere a casa, supporto della nostra vita, diventerà macchiato, sporco. Dopo aver imparato ad abbandonare un pensiero, troviamo la forza di ripetere questa operazione in ogni occasione. In questo modo ripuliremo il nostro rifugio. Tutti, ogni giorno, spazziamo la nostra stanza. Tutti spazziamo i corridoi. Spazziamo anche il nostro cuore! Possiamo anche fare pulizia nei corridoi e nel nostro cuore contemporaneamente. Non ci vuole più tempo. Dobbiamo schiarirlo per purificarlo dalla paura, dalla resistenza, dalle false speranze. La speranza non è la realtà. Speranza e la paura vanno di pari passo.
Con una sensazione di calore e di sicurezza nel cuore, la meditazione è migliore. Non solo la concentrazione, ma la stessa esistenza prende una consistenza diversa. È come se ci rendessimo conto che abbiamo vissuto in modo frammentario e che, ora, questa vita in pezzi è riunificata. Grazie a una vita unificata nasce un senso di completezza ― un modo di entrare nel Nobile Sentiero, e vivere una vita santa. È una cosa da mettere in pratica per noi e attraverso di noi. Ogni volta che pulite qualcosa — e ognuno ha la possibilità di farlo (puliamo vialetti, aiuole, alberi troppo frondosi, la cucina, piatti, ogni tipo di di sporco) —, ricordate, per favore, di ripulire anche il vostro cuore. Entrambe le azioni devono andare insieme. È tanto difficile ricordare che quando agiamo fisicamente, possiamo anche purificarci mentalmente.
Grazie a una base centrale pulita e solida, la nostra struttura interiore è permeata d’amore. Un certo amore per se stessi, naturalmente, tende a irradiarsi all’esterno. Non c’è bisogno di cercare deliberatamente di amare gli altri, questa modalità è una conseguenza dell’amare se stessi.
Amare se stessi, in questo contesto, non ha nulla a che fare con l’autocompiacimento. Amare se stessi significa coltivare un sentimento positivo verso di noi. Provare amore per gli altri allora diventa facile. Un sentimento di unità pervade tutto il nostro essere, è improbabile disperdersi ancora. Siamo forti, unificati. Non lo sentiamo solo noi, ma anche gli altri lo constatano. Una volta stabili personalmente, diventiamo un punto fermo, una roccia su cui gli altri possono mettere il piede. Una roccia solida non si sbriciola quando gli altri vi si appoggiano. Ma se è troppo fragile e porosa, le avversità l’affliggeranno sempre. È questa forza che dobbiamo preparare ne i nostri cuori affinché nulla di ciò che accade al di fuori di essi lo turbi. Vivere una vita santa significa diventare interi, unificati.
Ayya Khema, nata a Berlino nel 1923 da genitori ebrei, nel 1938 lasciò la Germania e seguì la famiglia in Cina. Liberata dopo la guerra da un campo di concentramento giapponese, emigrò negli Stati Uniti. Tra il 1960 e il 1964 viaggiò col marito e il figlio in tutta l’Asia, entrando in contatto con la meditazione, che cominciò a insegnare in Europa, America e Australia. Le sue esperienze la portarono, nel 1979, nello Sri Lanka, dove fu ordinata monaca buddhista col nome di Khema, ovvero Sicurezza (Ayya significa Venerabile). Nel 1978 si stabilì nel Wat Buddha Dhamma, un monastero della foresta secondo la tradizione theravāda, nei pressi di Sydney. Nel 1987 ha organizzato la prima conferenza internazionale di monache buddhiste, che ha portato alla creazione di Sakyadhita, un’organizzazione internazionale delle donne buddhiste. Nel maggio 1987, come ospite, è stata la prima buddhista ad aver parlato alle Nazioni Unite a New York. È scomparsa nel 1997.