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Il dono dell’ospitalità

di Manu Bazzano

Vi sono diverse connessioni fra la psicoterapia e la pratica del Dharma. Una di queste è l’aspirazione a offrire sincera ospitalità. Che cos’è l’ospitalità? E perché è centrale nella psicoterapia e nel buddhismo?

Nell’intraprendere il sentiero, un praticante buddhista aspira a diventare un bodhisattva, o un «essere risvegliato». Nella lunga storia dall’antica iconografia al presente, la figura del bodhisattva ha gradualmente lasciato cadere gli indumenti oltremondani da archetipo per assumere le fattezze di un essere umano ordinario. Di conseguenza, se un tempo descriveva un santo o una persona cui era stata concessa una rivelazione divina, ora si può interpretare «bodhisattva» esistenzialmente, cioè come una persona che ha sviluppato un’aspirazione di essere d’aiuto agli altri. Un bodhisattva ha compreso la natura insoddisfacente dell’esistenza e ha riconosciuto la sofferenza inerente all’umana condizione: invece di andare a caccia dell’illuminazione, di un sapere speciale o della capacità di compiere imprese miracolose, aspira ad agire con saggezza e compassione per il beneficio degli altri esseri. Invece di un archetipo platonico al di fuori della realtà contingente, tale persona è ordinaria, e come tutti noi vive e respira nel mondo dei fenomeni. Invece di un messaggero speciale da una dimensione più elevata, l’essere risvegliato coltiva uno spazio nel cuore e nella mente allo scopo di ospitare la presenza di un altro essere umano.

Si ravvisano qui somiglianze con il cristianesimo, in particolare per come viene espresso dal filosofo Søren Kierkegaard. Ispirato ma anche perseguitato dalla figura di Abramo, nella sua opera Timore e tremore egli evoca la figura del cavaliere della fede, che rinuncia al mondo e nello stesso tempo, paradossalmente, si dedica ad esso. La spiritualità di Kierkegaard è ancorata nel quotidiano e tuttavia ha una fede straordinaria che può forse essere compresa come una fiducia priva d’oggetto. Alcuni counsellors e terapeuti forse definiranno tale fede come fiducia nella tendenza all’attualizzazione: tale nozione, ora criticata in un paesaggio culturale dominato dal riduttivismo e dalla psicologia comportamentista, è valida e utile nel rinnovare una promessa di complicità con la natura ineffabile della vita e in particolare dell’esistenza umana.

A seguito di tale promessa, un terapeuta o counsellor si adopererà forse a ospitare gli aspetti sia «positivi» sia «negativi» di un cliente o paziente, sospendendo il desiderio di vedere la manifestazione di cambiamento positivo nelle sue fattezze più ovvie. Sostenere un’attitudine neutra e benevola verso diverse configurazioni aiuta la persona a essere a sua volta ospite migliore delle proprie emozioni e sentimenti, compresi quelli difficili, dolorosi, e distruttivi. Carl Rogers ovviamente coniò un’espressione per tale attitudine: considerazione positiva incondizionata, una nozione variamente interpretata e spesso fraintesa.

Un atto di generosità

Il bodhisattva si impegna nella pratica delle sei pāramitā o «perfezioni», la prima delle quali consiste nella pratica della generosità. Tale semplice e buona volontà di aprirsi agli altri garantisce l’ammissione al palazzo leggendario della verità: il modo più diretto per arrivarci non è mediante pratiche esoteriche e trucchi di prestigio yogici, ma attraverso un atto di rinuncia, un atto di generosità: invece della ricerca esotica di una rivelazione mistica, il Buddha ci invita a creare uno spazio adeguato alla presenza dell’altro. Sporgendoci dalla nostra esistenza autarchica, scopriamo uno spazio più vasto.

Anche il terapeuta crea spazio per il cliente, e in tal modo rende possibile il dono straordinario della terapia. Nel suo capolavoro Minima Moralia, Theodor Adorno ha osservato come abbiamo dimenticato l’arte di fare regali: non siamo più in grado di dare qualcosa per niente, tanto meno il regalo del proprio cuore e della propria mente, il dono di ciò che Carl Rogers era solito chiamare presenza. Che un regalo autentico sia diventato così raro dà significato maggiore alla pratica terapeutica. Anni di studio e di tirocinio, di cura di sé e di sviluppo personale possono essere visti come orientate verso l’affinamento e il perfezionamento di tale capacità sottile: fornire uno spazio genuino nel cuore e nella mente allo scopo di ricevere un altro. Forse ciò che cerchiamo di coltivare è la negative capability, felice espressione usata dal grande poeta inglese John Keats in una lettera del 1817. Keats definì tale «capacità negativa» come il dono di «essere nell’incertezza, nel mistero e nel dubbio senza ricorrere nervosamente alla ragione o ai fatti». Egli la percepì come un modo intuitivo di rapportarsi al mondo che ne rispetti la sua natura ineffabile e inscrutabile, piuttosto che desiderare di catturarlo e «comprenderlo».

Risposte diverse da emisferi diversi

La risposta individuale alla presenza di un altro essere umano risveglia certamente perplessità simili alle quali rispondiamo in modo diverso. Una di tali risposte è dall’emisfero cerebrale sinistro: cognitiva, volta a incoraggiare l’altro verso un cambiamento positivo, verso maggiore controllo della propria vita. Un altro modo, se si prova a tradurre la profonda intuizione di Keats nel linguaggio scientifico, sarebbe una risposta dall’emisfero cerebrale destro. Sappiamo che, in senso lato, l’emisfero destro governa l’empatia e l’inter-soggettività, dá rilievo al viaggio più che alla meta, asserisce il primato della percezione, resiste alla riduzione del vissuto a mero tornaconto. Ricerche interdisciplinari sulla psicologia infantile (evidenziate dal neuro-psicanalista Allan Schore) ci hanno aiutato riconoscere che il meccanismo di creazione evolutivo di un legame di attaccamento di comunicazione socio-emozionale e la maturazione degli affetti rappresentano eventi chiave nell’ infanzia, molto più di quanto lo siano l’emergere di cognizioni complesse. Esito significativo di ciò è che una terapia efficace comporta una comunicazione da emisfero destro a emisfero destro, di per sé un cambio di rotta dopo tre decenni di dominio degli approcci cognitivi e del comportamentismo.

Il Dono della Terapia

La terapia e la pratica del Dharma sono forme di potlatch, un termine che si riferisce al sistema primario d’economia praticato dalle popolazioni indigene della costa Americana nord-occidentale dell’oceano Pacifico. La loro era una economia basata sul dono piuttosto che sul profitto e fu bandita alla fine dell’ottocento su pressione dei missionari e di agenti del governo che la consideravano «un’usanza barbarica e inutile» e contraria ai valori civili. Il potlatch venne poi praticato molti anni dopo durante gli anni del maggio ’68 all’interno del network dell’Internazionale Situazionista, un movimento politico e culturale che ci ha regalato arte e architettura, che ha ispirato insurrezioni così come opere filosofiche chiave quali La società dello spettacolo di Guy Debord, dove si legge delle «parodie del dialogo vero e dello scambio di doni», così come di esistenza alienate, e di come insoliti e preziosi possano essere il dialogo autentico e lo scambio di doni.

È comodo, dalla nostra prospettiva post-moderna sofisticata e un po’ cinica, giudicare ingenue tali modalità di scambio. Il fatto rimane tuttavia che un dono autentico è non solo raro, ma anche difficile da ricambiare e vincolante. Il dono della terapia è davvero insolito, e forse il pagamento rappresenta un modo ― il nostro modo riconosciuto e accettato da moderni occidentali ― di rispondere in qualche modo a tale dono straordinario. Ovviamente il dono è tale soltanto se il counsellor o il terapeuta ha saputo coltivare la via dell’ospitalità.

Cosa diciamo veramente quando diciamo «benvenuto»?

Quali sono le buone qualità di uno che ospita, di un «padrone di casa»? Innanzitutto riconoscere che un’esistenza autarchica è un’illusione: nessuno è del tutto auto-sufficiente; nessuno può esistere nell’isolamento. Secondariamente, l’ospitalità è attiva, nel senso che gli attributi di sollecitudine e premura non risiedono automaticamente nella sfera dell’essere come vorrebbero farci credere filosofi quali Heidegger. Ma il punto di gran lunga più saliente è che colui che ospita comprenda di essere un inquilino nella sua propria casa e un ospite sul pianeta. Nel ricevere qualcuno a casa mia, vengo nel contempo ricevuto dalla mia dimora, e in tal modo comprendo appieno la mia natura esistenziale di ospite.

Cosa dico veramente quando dico «benvenuto»? Presumo forse che questa dimora, questa casa, questo territorio mi appartengono, e che tu, ospite, altro, cliente/paziente/cognoscente/amico puoi occuparli per un po’? Mi viene in mente un mio ex-paziente che in procinto di trasferirsi da una città a un’altra e nel lasciare il luogo dove aveva vissuto e lavorato per molti anni, rifletté in modo commovente su come case e appartamenti che ci vedono passare fra nascita, matrimonio, bambini, separazione e morte durano ben più a lungo di noi. Ho pensato a Rainer Maria Rilke, che nella sua ottava elegia di Duino si domanda: che cosa ci ha creato così da sembrare, qualsiasi cosa facciamo, sempre in procinto di partire?

Una tazza di tè

Vi è un altro motivo fondamentale per cui l’ospitalità è cruciale all’interazione umana. Convocato da un altro, chiamato a rispondere, la risposta mi crea. Chiamato a rispondere, entro nell’ambito condiviso che il neurologo e filosofo Kurt Goldstein, precursore della psicologia Gestalt e uomo ispirato da Gœthe, chiama l’immediato.

La tradizione Zen sottolinea la bellezza e semplicità della cerimonia del tè, che non deve essere necessariamente preziosa e formale. Offrire una tazza di tè all’ospite coinvolge entrambi, ed entrambi devono essere presenti per gustarla. L’offerta e il gradimento dell’offerta sono immediati, entrambi entrano in un ambito condiviso, nel mezzo (in-between), un ambito aldilà della sfera dialogica, un luogo in cui l’essere emerge, reso possibile da una sospensione del giudizio ― non una tecnica o una strategia ma la modalità genuina dell’incontro ― sempre più rara ora che possediamo opportunità sempre sofisticate e brillanti per rimanere indifferenti l’uno all’altro mentre saltelliamo da Facebook a Twitter, da smart phones a iPad…

 

Manu Bazzano è uno psicoterapeuta, monaco zen e docente di psicologia e filosofia. Fra i suoi scritti: Buddha è morto: Nietzsche e l’aurora dello Zen europeo (2009); La velocità degli angeli (2009); Chi ama lo straniero: verso una fenomenologia dell’ospitalità (2001); Il perpetuto principiante: scritti sullo Zen e l’arte della psicoterapia esistenziale. Sito web: www.manubazzano.com