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Corrado, Kalyāṇa-mitta

La Fondazione Maitreya si unisce al lutto della Comunità buddhista e di tutti coloro che hanno conosciuto e seguito l’insegnamento del Professore e Maestro di Dharma Corrado Pensa, scomparso a Roma il 29 febbraio.
Corrado Pensa (Atri (Te) 19/07/1939 – Roma, 29/02/2024) , allievo di Giuseppe Tucci, è stato uno dei principali esponenti del Dharma nel nostro paese. e del dialogo interreligioso. A lungo docente di Religioni orientali all’Università La Sapienza di Roma e fondatore e insegnante guida dell’A.Me.Co. con il suo instancabile impegno verso lo studio, l’insegnamento e la pratica ha rappresentato e continuerà a rappresentare un punto di riferimento per gli studiosi e i praticanti di Dharma nel cammino di presenza e di crescita spirituale.
La Fondazione, di cui Corrado è stato uno dei primi Garanti, esprime la sua vicinanza alla famiglia, alla compagna di vita e di Dharma Neva Papachristou, al figlio Giorgio, ai suoi allievi, e a tutti coloro che, ispirati dalla sua trasmissione del Dharma, ne hanno seguito gli insegnamenti e l’esempio di vita.

Per ricordare Corrado vi proponiamo un suo articolo tratto dalla rivista PARAMITA n. 54.

 

Desiderio di illuminazione e desiderio di Dio

 

Questo che segue è il testo riveduto di una conferenza tenuta il 9 gennaio scorso all’U­niversità di Venezia,

nell’ambito delle attività promosse dal Centro Maitreya.

 

1. Per cercare di comprendere il meglio possibile il tema in questione e cioè quel desiderio che, in entrambe le tradizioni, è talora chiamato il desiderio più profondo, ci conviene soffermarci su quella condizione – non infrequente – nella quale tale desiderio non abita affatto, per lo meno a livello cosciente. È una situazione sotto il regime dell’io-mio, tipicamente frammentaria e precaria e, in ultima analisi, luogo di contrazione e di paura. Soprattutto, come vedremo, osserviamo in essa una particolare limitatezza e vulnerabilità del fattore fiducia.

La vita incardinata sull’io-mio è un grande problema. Ed è un grande proble­ma anche perché non è riconosciuta come tale (il buddhismo chiama avijjā, ignoran­za, questa situazione). E dunque, a causa di questo mancato riconoscimento, il desi­derio di assoluto, ossia il desiderio di tra­scendere l’io, tende a non affiorare alla coscienza, nè viene compreso qualora se ne incontri una qualche formulazione. Ba­sti pensare a una situazione di vita consi­derata mediamente buona, alla quale tuttavia non arrida un orientamento spiri­tuale. Perchè, malgrado tutto, c’è, anche in essa, svariata sofferenza mentale? Perché, potremmo rispondere, anche il baricentro di questa situazione è definibile così: affidarsi all’inaffidabile.

Vediamo di capire e chiediamoci: se io mi affido a mie sperimentate qualità posi­tive, se io mi affido a persone amiche e a circostanze buone, come per esempio una buona situazione di lavoro, non faccio bene? Indubbiamente sì. Addirittura que­sta capacità di affidarsi rappresenta un sa­lutare passo di crescita nella nostra vita, passo dal quale non potremo che ricavare soddisfazione. Osserviamo, però, che in noi la sorgente della sofferenza interiore non si è affatto prosciugata, malgrado la nostra condotta di vita così psicologica­mente matura. Come mai? Eppure ci sem­bra di esserci affidati a cose più che affidabili.

Cominciamo a dire, in generale, che, affidandoci a noi stessi, agli amici, a situa­zioni positive, noi ci siamo affidati a qual­cosa di continuamente cangiante, aspettan­doci, invece, benefici duraturi e immutabi­li. Dunque le mie qualità positive, le persone che mi vogliono bene, le circo­ stanze favorevoli, sono certo affidabili da un lato. Ma nel momento in cui io chiedo loro, consciamente o inconsciamente, quel­lo che non sono in grado di darmi, non possono che diventare inaffidabili, anche se il difetto sta nelle mie aspettative e non nelle varie cose alle quali mi affido. Per esempio, mi affido a una serie di entusia­smanti progetti che ho elaborato per la mia vita. E col tempo li porto a termine più o meno tutti. Mi accorgo però che c’è una disparità tra quell’entusiasmo iniziale e il traguardo finale, che pure è caratterizza­to da risultati non inferiori a quelli che mi ero prefissi.

Quella disparità mi inquieta sottilmente: sento che c’è come una promessa che è stata mantenuta solo fino a un certo punto. Quell’entusiasmo iniziale prometteva un misterioso qualcosa in più, che è come sfumato nel frattempo. Ma consideriamo anche uno di quei rari casi in cui ci è capitato di dire: “È proprio quello che volevo, è come lo volevo”. Qui l’inquietu­dine è un po’ diversa ed è più nascosta. È lo stupore davanti alla rarità di questo esito. Questo stupore equivale ad ammet­tere che le cose sono molto raramente come noi vorremmo che fossero e sono invece, più frequentemente, come noi non vorremmo che fossero. Il che genera un senso di insicurezza vaga e, insieme, forte. È come vedere un viso amico e affettuoso in mezzo a una folla di visi indifferenti od ostili: da un lato ci fa gran piacere, dall’al­tro ci fa accorgere ancor più di ciò che predomina in quella folla. La conclusione, più o meno conscia, alla quale arriveremo è che un pieno successo come quello che ci è toccato è cosa infrequente. Sicché per un verso il successo ci darà fiducia. Tutta­via la constatazione della sua infrequenza e della sua incontrollabilità getterà un’ombra densa su quella fiducia.

2. Consideriamo adesso un altro esem­pio, a proposito, questa volta, dell’affidarsi ad altri. Anche qui prendiamo il caso mi­gliore: ci rivolgiamo per aiuto a una per­sona che ha affetto e lealtà nei nostri confronti. Il risultato immediato è che ci sentiremo veramente aiutati e sostenuti. Più in là è possibilissimo che ci colga il pensiero che quell’aiuto, pur così reale, non sia stato però sufficiente. E magari chiediamo e ancora otteniamo, parecchie volte. Ma c’è un senso di mancanza, di bisogno che, in un modo o nell’altro, ten­de a riformarsi, anche se certamente è stato lenito da quell’aiuto pronto e ami­chevole. Dunque questo aiuto è rassicuran­te, sì, ma la rassicurazione è parziale. Poter fare riferimento a un certo numero di per­sone nelle quali avere fiducia è come se ci rassicurasse, ma solo fino a un certo pun­to. Da un certo punto in poi tende a riformarsi di nuovo una sensazione di in­sicurezza e di impotenza davanti alla fatica e alla complicazione di vivere. Di nuovo: la persona buona che ci ha aiutato è affida­bile. Ma noi le chiediamo di più di ciò che può darci.

Infine, riflettiamo circa un esempio rela­tivo all’affidarsi al proprio lavoro. E imma­giniamo un lavoro creativo, che amiamo e che va felicemente avanti così, da anni. Possiamo dire di avere realizzato la nostra vera vocazione, con soddisfazione nostra e non solo nostra. Tuttavia, anche questa ottima cosa ci rassicura fino a un certo punto. La nostra attività ci dà gioia. Ma è come se la soddisfazione e il rilassamento che essa genera non fossero in grado di andare oltre un certo limite. Invadono una nostra zona interna abbastanza ampia, ma un’altra zona, più indefinita nei suoi con­fini, rimane facile territorio delle preoccu­pazioni continuamente ricorrenti, della incertezza e della insicurezza. Insomma la serenità, pur non essendo per noi solo una visitatrice occasionale, rimane tuttavia la qualità più fragile e delicata del nostro universo mentale. Anche se siamo persone molto fortunate e contente, non ci sembra che la serenità abbia vere radici in noi, al contrario dell’inquietudine, radicata così saldamente dentro di noi.

3. A tutto ciò si potrebbe però obiettare che, di fatto, questo andamento delle cose è molto naturale. In sostanza, si può dire, la dovizia di inquietudine e la penuria di serenità è la vita e la vita va accettata così come è. Questa frase può suonare saggia. Però, se abbiamo una certa familiarità con un cammino interiore, siamo in grado di muoverle, a nostra volta, due obiezioni. La prima è che noi, assumendo che la vita può essere solo infelice e assumendo ma­gari che l’unica crescita possibile sia il passaggio ‘dall’infelicità nevrotica alla normale infelicità’, per dirla con Freud, non diamo alcun credito ai cammini sapienzia­li, dimostrandoci prevenuti negativamente davanti alla buona notizia nel segno della felicità che essi proclamano. La seconda obiezione è che, evidentemente, la nostra esperienza di accettazione è molto limitata, dato che l’accettazione profonda è fonte di una pace tale da mettere radicalmente in discussione il nostro concetto di vita come storia infelice, ossia senza pace vera.

Riassumendo: se non vediamo tutto il dolore non necessario che nasce da un’esi­stenza posta sotto il regime dell’io-mio sarà difficile che possa sorgere un autenti­co desiderio di trascendenza dell’io o de­siderio di assoluto. La caratteristica princi­pale del regime dell’io-mio è quella di ri­ promettersi la felicità da ciò che non è ingrado di dare felicità. L’errore potrebbe perciò essere definito come l’errore di affidarsi all’inaffidabile. In termini buddhi­sti, fino a che noi ci affidiamo a ciò che è condizionato, non importa quanto nobile e buono, ci affideremo a ciò che è continua­mente mutevole, ultimamente insoddisfa­cente e sostanzialmente inafferrabile. Ossia ci affidiamo a tutto fuorché al lavoro interiore e ai suoi frutti, a tutto fuorché al Dharma “che è bello all’inizio, è bello alla metà e bello alla fine”. In termini cristiani, possiamo dire che ci affidiamo a un cuore non semplificato e perciò incapace di cercare Dio in tutto, come fa, invece, il cuore semplice.

Abbiamo inoltre accennato alle inevitabili conseguenze del regime dell’io sulla fiducia. Infatti se, come abbiamo detto, il baricentro di questo regime è l’affidarsi all’inaffidabile, il risultato sarà che la fiducia avrà vita non facile, essendo continuamente frustrata o in modi evidenti e tangi­bili o a livelli più profondi e meno consci.

4. Al contrario, tutto il cammino spiri­tuale consiste in un progressivo aumento della fiducia. Un mio amico, presa l’ordinazione a monaco buddhista, andò in Bir­mania a praticare sotto la guida di U Pandica Sayadaw. Il primo insegnamento che si sentì dare fu questo: “Ricordati che la cosa più importante della pratica medi­tativa è il risveglio e l’approfondimento della fede”. Osserviamo in proposito che saddhā, fede-fiducia, è una qualità del cuo­re, come il coraggio o la pazienza, e non una credenza cognitiva in questo o in quell’asserto. Dunque: riscattare la fiducia da una condizione di sostanziale frustrazione, passare dalla vita sfiduciata alla vita fidu­ciosa: questa la spina dorsale della prassi interiore, che sia di meditazione o di pre­ghiera.

È legittimo dire che alla base della vita secondo l’io-mio c’è il desiderio ignorante, mentre alla base del lavoro interiore c’è il desiderio illuminato o desiderio di trascendenza. Il desiderio ignorante separa, divi­de, frammenta e crea sofferenza, mentre il desiderio illuminato unifica e porta pace. Il desiderio ignorante vuole avere il piacevole e vuole evitare lo spiacevole. Inoltre si solidifica e si compatta in profonde abitu­dini mentali e, come vedevamo poc’anzi, tende a proliferare impetuosamente in continue aspettative indebite, che appan­nano e distorcono la nostra percezione in­ terna ed esterna. Il desiderio ignorante rende infine impossibile la crescita della fi­ducia, dato che il nostro desiderio profon­do, che è di pace, si sente continuamente tradito dal desiderio ignorante, che porta conflitto e tensione invece che pace.

Il desiderio illuminato è il desiderio del­la trascendenza dell’io-mio, trascendenza che qui viene chiamata illuminazione, lì esperienza di Dio. “Desidera Colui deside­rando il quale tutti i desideri finiscono” dice, in ambito induista, il Tirukkural (1). Alla molteplicità conflittuale degli oggetti, cui si rivolge il desiderio ignorante, il de­siderio illuminato sostituisce un ‘oggetto’ che nella sua vastità sconfinata, non è un oggetto. Naturalmente questa non è una semplice operazione di sostituzione, ma fa capo a un’oscura intuizione che quella va­stità non è immaginaria. Perciò è raro che il desiderio illuminato si faccia sentire in modo potente fin dall’inizio di un percorso interiore. In genere occorre prima un ap­profondimento della ‘retta comprensione’ del desiderio ignorante nella sua struttura e nel suo movimento. Ossia occorre risve­gliarci al fatto che siamo compulsivamente dediti ad affidarci all’inaffidabile, con tutta la frustrazione e l’indurimento che ciò comporta. Soltanto allora la ricerca di una alternativa può diventare ricerca ardente e cioè desiderio illuminato.

5. Nel buddhismo il desiderio di illumi­nazione è indicato, da un certo momento in poi, col termine bodhicitta, che significa ‘mente dell’illuminazione’ o ‘del risveglio’. Più precisamente bodhicitta designa l’aspi­razione altruistica alla liberazione, ossia vo­ler raggiungere l’illuminazione per poter aiutare tutti gli esseri a raggiungerla. S. Te­resa di Lisieux prega il Signore di attirarla a sé. E aggiunge che, in tal modo, altri, attirati dalla sua attrazione, saranno attratti a Dio (2). Ma ascoltiamo una formulazione contemporanea, ad opera di Thich Nhat Hanh, del desiderio di illuminazione nel buddhismo. Il brano è tratto da uno scrit­to intitolato Coltivando il nostro desiderio più profondo:

Allorché una donna rimane incinta le ac­cade qualcosa che la investe tutta: corpo, mente e cuore. La presenza del bambino dentro di lei trasforma la sua vita, e una energia nuova nasce in lei, energia che le permette di fare cose che normalmente non riuscirebbe a fare.

Questa donna ora sorride e ha più fiducia nell’umanità e nel mondo e diventa una sor­ gente di gioia e di speranza per molti altri. Anche quando è in preda alla nausea o a qualche malore c’è, risvegliata nella profon­dità del suo essere, una sorgente profonda di soddisfazione. Noi che pratichiamo la medi­tazione abbiamo bisogno anche noi di rima­nere incinti, incinti del desiderio di illumina­zione. Un seme che è rimasto sepolto in noi per molti anni, sotto strati di sofferenza, do­lore e oblio, ha bisogno ora di essere toccato. E allorché viene toccato, la trasformazione accade. Nel buddhismo Mahayana questo seme si chiama bodhicitta, la mente di illumi­nazione. Quando entriamo in contatto con questa capacità, la gente vedrà gioia, energia e speranza in noi e tutto quello che facciamo o diciamo manifesterà la sua presenza (3).

Prima di fare qualche annotazione sul passo di Thich Nhat Hanh, mi piace ricor­dare le parole molto affini pronunciate dal giovane Krishnamurti, spirito iconoclasta notoriamente critico nei riguardi delle re­ligioni. E ciò allo scopo di sottolineare il carattere universale, e non soltanto bud­dhista e cristiano, del desiderio di illumi­nazione:

Dal momento in cui avete stabilito questo desiderio, quest’amore ardente per la libera­zione, allora avrete scoperto il porto di mare della vita… e una volta entrati in quel porto della liberazione diventerete i veri devoti; gli amanti del mondo, perché il mondo cerca questa liberazione (4).

6. Tenendo a mente le considerazioni fatte prima e la descrizione di Thich Nhat Hanh, possiamo dire questo: il desiderio di illuminazione è ciò che spinge a intrapren­dere un tragitto interiore. Però ha bisogno poi di molto lavoro per potersi imporre e diventare la grande forza trainante e prio­ritaria dello stesso lavoro interiore.

Nei Vangeli Gesù osserva che Marta si preoccupa di molte cose, mentre ‘una cosa sola, invero, è necessaria’. Maria, che, al­ trimenti da Marta, coltiva un’attrazione in­ divisa nei riguardi di Gesù e delle sue parole ‘ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta’ (5). Con tutto il rispetto per una secolare tradizione che vede in Marta l’esempio della vita religiosa attiva e in Maria l’esempio della vita contemplativa, a me sembra che Maria, proprio in quanto portatrice del discernimento più profondo e della capacità di non distogliersi da esso, rappresenti, in effetto, una forte immagine di vera vita religiosa e, come tale, si pro­ponga come modello di vita sia attiva, sia contemplativa.

La priorità assoluta della ricerca del Re­ gno è sottolineata frequentemente nei Van­ geli. In termini buddhisti potremmo parla­ re di una vera e propria presa di rifugio. Ciriferiamo sia alla proclamazione dell’urgen­ za di prendere rifugio nel regno di Dio, che non di rado coindde con la proclama­ zione della superiorità della comunità della fede sulla comunità del sangue: ovvero il rifugio del sangha. Ricordiamo per esem­pio:

Uno gli disse: “Signore, ti seguirò ma per­ mettimi prima di congedarmi dai miei”. E Gesù gli rispose: “Nessuno che, dopo aver messo mano all’aratro, volga indietro lo sguardo, è buono per il regno di Dio” (6).

E ancora.

Fu annunziato a Gesù: “Tua madre e i tuoi fratelli stanno fuori e desiderano vederti”. Ed egli disse loro: “Mia madre e i miei fratelli sono questi che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica” (7).

7. Tornando alla ‘mente del risveglio’ o bodhicitta nel buddhismo, osserviamo che nella tradizione Mahāyāna-Vajrayāna si usa distinguere tra bodhicitta assoluto e bodhi­citta relativo. Il bodhicitta assoluto non è altro che la meta più alta, ossia l’illuminazione completa, la realizzazione dell’asso­luto in quanto infinito, intelligenza e amo­re; nei termini specificamente buddhisti: vuoto, saggezza e compassione. Ora una comprensione anche soltanto iniziale della illuminazione massima o bodhicitta assolu­to fa nascere l’aspirazione a realizzarla. Tale aspirazione è il bodhicitta relativo, ossia il bodhicitta più comunemente inteso: l’aspirazione alla illuminazione per l’illumi­nazione di tutti. Tale aspirazione si deve poi estrinsecare in una serie di pratiche spirituali volte da un lato a liberarci dal nostro desiderio ignorante o egostico, dall’altro a sviluppare la compassione per tut­ti gli esseri viventi.

Ascoltiamo, a proposito del bodhicitta, Lama Yesce:

La mente egoista è incredibile, è come un coltello piantato nel cuore, che ci fa male… [L’atteggiamento egocentrato] causa dolore e problemi. Se volete liberarvi dal dolore, do­vete accogliere nel vostro cuore tutti gli es­seri dell’universo. Questo è il vero antidoto all’egoismo (8).

Dunque la pratica del bodhicitta relativo ci avvicina al bodhicitta assoluto. Ovvero la pratica dell’aspirazione all’illuminazione ci avvicina all’illuminazione. In sostanza, esercitarsi nel bodhicitta, sviluppare il bo­dhicitta significa sviluppare la compassione o, per dirla con alcuni lama contempora­nei, un cuore tenero e aperto.

Ascoltiamo ancora Lama Yesce:

Perché il bodhicitta è necessario per aver successo nella meditazione? A causa dell’at­taccamento all’io. Se fate una buona medita­zione ma non avete il bodhicitta, vi aggrap­pate a ogni piccola esperienza di beatitudine dicendo: “A me, a me. Ancora, ne voglio di più” (9).

Invece la coltivazione del bodhicitta significa alimentare in maniera sistematica e in grado crescente il ricordo di tutti gli esseri e del loro fondamentale bisogno di felicità. Nell’esempio appena citato da Lama Yesce, il momento di beatitudine sarà dedicato a tutti, offerto per l’illumina­ zione di tutti gli esseri, invece che essereafferrato con avidità egocentrata. Questo espandere la mente in un ricordo-intenzione di bene per tutti, reiterato il più possi­bile, cura noi stessi e ci rende assai meno nocivi agli altri. Portato poi a livelli pro­fondi, significherà trasformazione dell’indi­viduo e capacità di favorire la trasforma­ zione altrui.

Significherà per esempio che il bodhisat­tva – ossia colui nel quale il fiore del bodhicitta è pienamente fiorito – all’av­vertire anche una minima sofferenza pro­pria concepirà immediatamente compassione per tutti gli esseri viventi, giacché, come dicono gli insegnamenti, il bodhisat­tva vede le proprie sofferenze anzitutto come esempio delle sofferenze degli altri. E la mente-cuore così profondamente fecon­data dalla compassione e dunque resa par­ticolarmente flessibile, vasta e tenera sarà più in grado di cogliere la verità ultima, la saggezza della vacuità o ‘aperta sconfinatezza’ che è poi l’altra faccia della compas­ sione. Come direbbe in ambito cristiano, tra gli altri, Guglielmo di Saint-Thierry, amor ipse intellectus, l’amore stesso diventa penetrazione intellettiva (10).

8. E ci conviene, qui giunti, di perlu­ strare ulteriormente la tradizione cristiana sull’argomento del desiderio illuminato. L’Anonimo autore inglese della Lettera di direzione spirituale (.XIV sec.) afferma che il desiderio spirituale è per l’anima ciò che il camminare rappresenta per il corpo (11). Qualche secolo più tardi J.P. De Caussade osserverà che lo spirito di Dio opera solo nella pace e che la mancanza di questa pace è per l’anima ciò che la mancanza di salute è per il corpo (12). A cavallo nel tempo tra i due ricordiamo S. Teresa d’A­vila che si sofferma sulla pace come por­tato tipico del desiderio di Dio (13). Dunque desiderio di Dio ovvero pace e pace non dipendente da condizioni, pace foriera di salute e di libertà. Non a caso nella spiritualità cristiana contemporanea sono apprezzati questi versi di Rabindra­nath Tagore, cantore di una religiosità non confessionale:

Solo quel poco mi rimanga perché io pos­sa proclamare che Tu sei il mio tutto // Solo quel poco della mia volontà mi rimanga per­ ché io possa ovunque sentirti attorno a me e venire a Te in tutto… // Solo quel poco dì me rimanga perché io non possa mai sfug­girti (14).

Ma ascoltiamo ancora Guglielmo di Saint-Thierry, nel quale molta spiritualità elaborata precedentemente confluisce e trova espressione particolarmente chiara. La voluntas al suo stato naturale è libera e se segue la natura diventerà amore, carità e sapienza. Ma se c’è invece opposizione alla legge naturale l’amore diventerà avidità, gola, invidia. Se invece – soggiunge Guglielmo – “non si guasta e rmi ane nella sua natura, è tutta per te, Signore” (15). La tendenza naturale profonda è al bene. Il desiderio di Dio è, appunto, il nostro de­ siderio più profondo. In qualche modo è più naturale e più essenziale degli altri desideri.

Per dirlo con le parole di Teofane il Recluso, vissuto nel secolo scorso:

Questo disordine benché lo si riceva in germe insieme alla nascita, non ci è connatu­rale, non appartiene alla nostra natura uma­na, non è così sostanziale che, senza di esso, l’uomo non sia più uomo.

E ancora:

Ricordati che questa confusione e questo disordini e sono a noi congeniti, ma non na­turali (16).

La propensione più fondamentale del­l’uomo – anche se spesso la più nascosta – è quella al bene. La fiamma della vo­luntas, se lasciata splendere, va verso l’alto.E così quando, presso vari autori cristiani e nelle epoche più diverse, si parla del fondo dell’anima, della sinderesis, della punta dell’anima, della scintilla animae, ci si riferisce al luogo interiore profondo del desiderio illuminato, desiderio dunque più naturale del desiderio ignorante.

Osserviamo qualcosa di molto simile nel buddhismo. È stato notato che nella lette­ratura della Prajñaparamita il desiderio altruistico di illuminazione, bodhicitta, è equiparato a quella mente originaria intrin­secamente luminosa, già in risalto nell’inse­ gnamento del Buddha (17). Dunque il desiderìo di illuminazione come raggio e riverbero della stessa illuminazione. La quale è anzitutto eternamente presente ed è il fondamento primo dell’uomo. Ma che diventa traguardo lontano a causa della forza oscuratrice del desiderio ignorante. In certe scuole buddhiste si parla del pro­fumo emanante dall’assoluto che è in noi (18). Attratti da quel profumo, metafora per fede o desiderio di illuminazione, ci imbarchiamo nel cammino interiore e nelle sue difficoltà: trattenuti dal desiderio igno­rante da un lato e sospinti e sostenuti dal desiderio illuminato dall’altro. Di nuovo, come si osservava a proposito della volun­tas, non si tratta di due desideri. Il desiderio è uno. A causa di oscuramenti vari esso diventa dispersivo, divisivo e distruttivo. La purifìcazìone del cuore vuole appunto restaurare il desiderio nella sua pacificata purezza originaria: una volta sopravvenuto il disincanto salutare per gli oggetti dell’at­taccamento, la fiamma del desiderio ri­prende a splendere verso l’alto.

9. Un’ultima annotazione prima di pas­sare ad alcune considerazioni finali. Il de­siderio di illuminazione può essere l’osta­colo più grande all’illuminazione. Quando? Allorché, invece di essere un’aspirazione forte, quieta e indistinta, spoglia di concet­ ti e di immagini, una sorta di puro slancio, esso è, piuttosto, il desiderio ego-centrato e dualistico di questo o quel concetto di illuminazione che io mi ero costruito e al quale anelo per il mio personale presunto beneficio. È evidente allora che siamo davanti a una forma di desiderio ignorante particolarmente insidiosa, dato che ha ri­vestito i panni del desiderio illuminato. L’ambizione spirituale è più tossica di altre ambizioni, dato che, con contraddizione clamorosa, porta in trionfo ciò che vuole trascendere, ossia l’io-mio.

Nel buddhismo Theravada, nel quale personalmeme mi trovo a casa, il desiderio di illuminazione riceve una formulazione esplicita, sia nella pratica dei rifugi; sia nella pratica di benevolenza o mettā. Prati­ che che, è bene ricordarlo, richiedono tempo per dare fiori e frutti. Dicendo ‘prendo rifugio nel Buddha, nel Dharma e nel Sangha’ io ribadisco quietamente la mia conversione spirituale, il mio volgermi dentro. I rifugi intesi come conversione ideologica, come presa della tessera del partito buddhista, mi sembrano una defor­mazione egoica della pratica. Prendere ri­fugio nella buddhità in noi, nella pratica e nel suo frutto e nella comunità dei prati­canti è anzitutto prendere le distanze pro­prio dalla mente che concettualizza, ideo­logizza, separa e contrappone e che tutto può essere fuorché rifugio e riposo.

Nella pratica di mettā io auguro a tutti gli esseri di pervenire alla liberazione. Più di una voce autorevole ha notato la sostan­ziale convergenza tra la pratica di bodhicitta e la pratica di mettā (19), anche se rimane una certa differenza tra le due quanto a enfasi: nel Mahāyāna-Vajrayāna il bodhicit­ta ta sembra essere più centrale di quanto sia la mettā nel theravada. È interessante tut­ tavia osservare che nel Theravada che ha preso piede in Occidente la pratica di mettā sta assumendo un posto molto rilevante.

Ritorno al riferimento personale fatto più sopra perché ritengo che in Occidente, oggi, il tipo di tragitto spirituale che mi accade di percorrere riguardi un numero non piccolo di cercatori interiori. Come dicevo, il mio fondamento spirituale è il satipatthāna o vipassanā così come esso è insegnato nella tradizione Theravada odierna. A questo punto del mio itinerario non mi sentirei egualmente sorretto dalla tradizione Mahāyāna-Vajrayāna o dalla tra­dizione contemplativa cristiana. E questo non già a causa di un qualche difetto di tali tradizioni. Ma in virtù di una mia affinità per il satipatthāna e per avere svi­luppato, nel corso degli anni, un gusto e una familiarità con detta tradizione che rappresentano un vitale nutrimento interiore. Tuttavia a me capita di attingere per ispirazione sia alla tradizione Mahāyāna-Vajrayāna, sia a quella cristiana. Nella pri­ma trovo il tema del bodhicitta con tutta la sua potenza spirituale. Nella seconda trovo un linguaggio nel quale l’assoluto è chia­mato per nome personale, è un ‘tu’. E questo per me, in virtù del mio retroterra, è significativo e utile. Anche se il pronome ‘tu’ mi sembra non meno provvisorio del pronome ‘io’ e anche se, dunque, non rie­sco a concepire alcun dualismo come de­finitivo. Così come il bodhicitta può aiutar­mi a non arenarmi inavvertitamente in sec­che psicologistiche, allo stesso modo la menzione di Dio può aiutarmi a non ada­giarmi in un’idea di saggezza e di compas­sione prive di trascendenza.

È necessario procedere in questo modo, con un fiume principale e alcuni affluenti? Certamente no. Ognuna delle grandi tradizioni che abbiamo menzionato mi pare profonda e completa in se stessa. Ogni praticante deve vedere per sé. E capire se questo allargamento o altri simili rappre­senta per lui o per lei un bisogno reale, oppure se è solo un modo per distrarsi, che ci porta ad andare meno a fondo invece che più a fondo. In altri termini, il praticante è chiamato ad applicare anche a questa sfera quel discernimento che ogni praticante è dedito a coltivare.

10. Tuttavia, con tutto il rispetto per i sussidi e le fonti ulteriori di ispirazione dirette ad aiutare la pratica spirituale, a me pare che la cosa più importante rimane la pratica. L’ausilio più essenziale per la pra­tica è la pratica stessa: dalla pratica pazien­te sorge via via più forte il desiderio illuminato.

C’è, in proposito, un apparente parados­so, che è questo. Il desiderio di luce è come se, dopo essere piano piano esploso a caratteri cubitali nella coscienza del cer­catore interiore, si riassorbisse poi tra le righe, diventando qualcosa di più defilato e modesto. Addirittura potremmo dire che da esplicito diventa implicito, da verbale diventa come preverbale, un quieto e assi­duo movimento istintivo. Da un lato dun­que abbiamo questo apparente smorzarsi del bagliore e dello smalto. Dall’altro però il desiderio sembra essersi infiltrato in modo più capillare. Desideriamo liberarci e desideriamo la stessa cosa per gli altri. Le soddisfazioni più profonde vengono ora da questa zona, dal contemplare que­sto fatto straordinario che è la possibilità di cambiare per il meglio. Vedere un ami­co che, in virtù di un lavoro interiore paziente, sviluppa una apertura e una cordia­lità che un tempo, a causa di una tensione dolorosa sarebbero state impensabili, ci tocca e ci entusiasma.

Mentre, d’altra parte, questa o quella attività che un tempo ci appassionava, pur rimanendo piacevole e interessante, non si carica più, adesso, di quell’aspettativa, di quella indebita promessa in più, come in passato accadeva. U desiderio grande, in­ vece di frammentare e dividere, come fa il desiderio piccolo, ha la virtù di unificarci e di raccoglierci. E questo dà forza. Altra forza viene poi da questo che, a misura che il desiderio illuminato diventa più rea­le, perde potere, di contro, il desiderio cieco. Ha termine, soprattutto, quella con­tinua erosione della fiducia di cui si è par­ lato all’inizio. Quell’affidarsi all’inaffidabile (con tune le sue conseguenze) ci appare con chiarezza sempre maggiore nello spec­ chio della consapevolezza.

E la fiducia, ogni anno di più, non può non privilegiare il cammino spirituale. In­fatti il cammino spirituale ci ha mostrato di essere in grado di sviluppare qualità inceriori come l’equanimità, la pazienza, la solidarietà, che sono vettori naturali di fiducia. La fiducia generata per eccellen­za dalla pratica interiore (viene in mente l’espressione ‘il Signore è fedele’) si manifesta poi ulteriormente come rispetto, sollecitudine e dedizione verso tutti quel­li che sono i mezzi e i metodi di cresci­ta interiore. E se i mezzi sono importanti, si ha l’impressione che la fiducia, il ri­spetto e la dedizione che essi suscitano siano ancora più importanti. Qualcuno ha detto: “Lasciate che la fiducia e tutte le sue manifestazioni rimpiazzino il deside­rio” (20).

Non a caso, io credo, si tramanda che il Buddha morente abbia detto appamadena sampadetha (21), ossia ” Lavorate alla vostra liberazione con appamada” , ovvero con sollecita consapevolezza, con dedizione fi­ duciosa e sempre vigile. E il Dhammapada lapidariamente osserva: “La via a ciò che non muore è la consapevolezza fervida e sollecita (appamada)(22).

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(1) Tirukkural, 350. Trad. da Vanmikanathan, Tiruchirapalli 1969.
(2) TERESA DI LISIEUX, Scritto autobiografico, cit. in P. GABRIELE DI S.M. MADDALENA, Intimità divina, Roma 1975, p. 1326.
(3) THICH NHAT HANH, Cultivating Our Deepest Desire, in “The Mindfulness Bell” 8 (1993), p. 1 .
(4) KRISHNAMURTI, Così parlò Krishnamurti, Blu International, Torino 1991, p. 36.
(5) Luca X, 38-42.
(6) Luca IX, 61-62.
(7) Luca VII, 19-21.
(8) LAMA YESCE, Heruka Vajrasattva, Chiara Luce, Pomaia 1994, p. 112.
(9) LAMA YESCE, Buddhismo in Occidente, Chiara Luce, Pomaia 1990, p. 183.
(10) GUGLIELMO DI SAINT-THIERRY , Lettera d’oro 173; ed. J. DÉCHANET, Sources chrétiennies, Paris 1975, p. 282.
(11) ANONlMO, La nube della non conoscenza e gli altri scritti, a cura di A. Gentili, Ancora, Milano 1981, p. 374.
(12) J.P. DE CAUSSADE, Trattato sulla preghiera del cuore, Edizioni Paoline, Milano 1984, p. 105.
(13) TERESA D’AVILA, Cammino di perfezione 19,2-3, in “Opere”, Roma 1969, pp. 622-623.
(14) Citato in V. TRUHLAR, Lessico di spiritualità, Queriniana, Brescia 1973, p. 10.
(15) GUGLIELMO DI SAINT-THIERRY, Natura e grandezza dell’amore, Edizioni Qiqaìon, Comunità di Bose 1990, pp. 35-39; IDEM, Lettera d’oro, cit., p. 49; Contemplazione, Comunità di Bose 1988, p. 32.
(16) TEOFANE IL RECLUSO, La vita spirituale, Città Nuova Editrice , Roma 1989, pp. 72-73.
(17) P. HARVEY, Consciousness Mysticism in the Discourses of the Buddha, in “The Yogi and the Mystic”, a cura di K. Wemer, Curzon, London 1989, in particolare p. 97.
(18) Citato e commentato in R. TRAER, Faith in the Buddhist Tradition, Buddhist-Christian Studies 11 (1991), pp. 89 sg.
(19) N. KATZ, Buddhsit Images o/Human Perfection, Delhi 1982, pp. 266 sg.
(20) JAE JAH NoH, Do you see what I see?, Quest, London 1977, p. 92.
(21) Digha Nikāya, Mahāvagga, par. 143.
(22) Dhammapada, 21.