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Ricordando Flavio…

Un anno è passato da quando Flavio ci ha lasciato. Ricordiamolo con le sue parole…che illuminano il suo pensiero e il suo essere.

L’arte del buonumore

Di Flavio Pelliconi

Come liberarci dei fardelli che instancabilmente ci carichiamo addosso o a cui ci attacchiamo con pervicacia?

Sulla Repubblica il 9 marzo (del 2004 ndr) è apparso un articolo di Umberto Galimberti sul buonumore. L’amico Sergio Orrao osservava al riguardo: “Essere ottimisti nel modo ideale credo corrisponda a quanto dice spesso il Dalai Lama: se c’è un problema che puoi risolvere, datti da fare per risolverlo, se non è risolvibile, inutile abbattersi ulteriormente. In entrambi i casi, meglio l’accettazione e un pensiero il più possibile costruttivo che uno distruttivo e negativo. Senza dimenticare che l’etica, il rispetto di certi principi, è fondamentale. Si può essere felici danneggiando il prossimo col proprio pensiero ‘positivo’, positivo al punto da essere assolutamente egoista? Interrogativo aperto”.
Nell’articolo Galimberti scrive che il buonumore “è accessibile a qualsiasi essere umano a prescindere dalla sua ricchezza, dalla sua condizione sociale, dalle sue capacità intellettuali, dalle sue condizioni di salute. Non dipende dal piacere, dalla sofferenza fisica, dall’amore, dalla considerazione o dall’ammirazione altrui, ma esclusivamente dalla piena accettazione di sé, che Nietzsche ha sintetizzato nell’aforisma: ‘Diventa ciò che sei'”.
A parte che il filosofo di Weimar non mi pare possa essere presentato come un testimonial del buonumore, anch’io sono d’accordo con Nietzsche, col Dalai Lama, con Galimberti e con Sergio (non necessariamente in quest’ordine). Ma mi pare che ciò che oggi si scopre non è solo un’ovvietà, ma non è nemmeno una scoperta. La stessa semplice ricetta per il buonumore è presente in tutte le culture, antiche e moderne, di ogni paese, a tutte le latitudini. Dice un proverbio cinese, forse non sconosciuto al Dalai Lama: “Se si può rimediare, perché preoccuparsi? E se non si può rimediare, perché preoccuparsi?”.
L’eudemonia (l’arte d’essere di buonumore) costituisce gran parte dell’insegnamento di Socrate, di Epicuro, di Aristotele. Ma non solo, anche dell’insegnamento del Buddha e di Lao-zi, in vantaggio di qualche secolo sui greci. Dice il Dao-de-jing (cap. XIII): “Grazia ricevuta è come disgrazia. Perché prima c’è ansia di riceverla, poi paura di perderla”. E il Dhammapada recita nel primo (!) verso: “Tutto quel che siamo è il risultato di ciò che abbiamo pensato: è fondato sui nostri pensieri, è formato dai nostri pensieri”. Si potrebbe andare avanti all’infinito, ma concludo la serie delle citazioni con Epitteto: “A turbarci non sono tanto le cose in sé, quanto l’opinione che ce ne siamo fatti”.
Ed è proprio in base a questi ultimi due concetti che mi permetto di correggere Galimberti: l’arte d’essere di buon umore non può consistere solo nel pensiero positivo, ma deve comprendere il retto pensiero, perché i pensieri tristi e deprimenti sono a loro volta un effetto e non una causa: infatti sono originati da credenze, convinzioni ed opinioni con le quali ci siamo identificati, a cui ci siamo tenacemente aggrappati.
“Prendersela con filosofia” non è così semplice. Come mai? Perché, in realtà, la gente del mondo non desidera affatto esser felice. Non è una provocazione, è un dato di fatto. Se osservassimo il mondo come se fossimo marziani appena scesi da un’astronave, la cosa ci balzerebbe agli occhi con immediata evidenza: la gente di questo pianeta dice di voler essere felice, ma poi in pratica si comporta (con i pensieri, le parole, le azioni e le omissioni) in modo da rendersi sistematicamente infelice. Perché? La risposta è ovvia: perché desiderano l’infelicità. Vedi Paul Watzlawick, che definisce il pensiero positivo “positive stinking” (ossia puzza positiva, invece di “positive thinking”) e il suo vecchio ma sempre valido “Istruzioni per rendersi infelici” edito da Feltrinelli.
E’ per questo che l’arte di star di buon umore, consiste non nel pensiero positivo, ma nel conoscere se stessi. E il conoscere se stessi consiste nel dimenticare se stessi (come diceva Dogen). Dimenticare se stessi, però, non significa diventare altruisti: vuol dire mettere tra parentesi e sospendere le proprie care convinzioni, le proprie adorate credenze, le proprie coccolate opinioni, perché proprio in questo e in nient’altro consiste il nostro io infelice.
Nel corso della vita, in seguito alle ammonizioni introiettate nell’infanzia, rafforzate nella giovinezza, consolidate in forma di piazza con tanto di obelisco nella maturità, il nostro io è andato progressivamente allargandosi: dall’identificazione con le sensazioni del corpo siamo passati all’identificazione con il corpo, con il nome e il cognome, la famiglia, il gruppo, il popolo, la lingua parlata, il partito, la nazione, la razza, il sesso, la religione e così via. E ogni identificazione è un’aggiunta al castello di credenze che, se attaccate o minacciate (in realtà o nell’immaginazione) sono causa di paura. E quindi di tristezza, di depressione. Più l’io si allarga, più crescono la paura, l’ansia, la depressione, perché aumentano esponenzialmente le possibilità di essere “attaccati”, “depredati”. Una paura che oggi si è estesa anche ai nostri “siti” virtuali su Internet, alle informazioni accumulate nel nostro computer, alla nostra corrispondenza telematica “violata”.
Non si tratta di riguadagnare la capacità di esclamare, come fece Ryokan, “il ladro l’ha lasciata la luna alla finestra”, ma di guadagnarla, perché non l’abbiamo mai avuta. Per acquistare una tale capacità non basta guardare “la parte piena del bicchiere” perché solo uno stupido può pensare che vedendo la parte piena allora non si vede più quella vuota; bisogna spogliarsi di un gran numero di identificazioni che si fondano sulle credenze cui rimaniamo tenacemente aggrappati. Sono questi aggrappamenti (kilesa), dice il Buddha, a renderci infelici. Lao-zi diceva: “Per la conoscenza bisogna aggiungere, ma per la saggezza bisogna togliere”. Nello stesso modo Madonna Povertà non reclama solo il corpo di Francesco, ma tutto il suo essere, compresi lo spirito e l’intelletto. E Lichtenberg: “Nulla contribuisce di più alla pace dello spirito quanto il nutrire poche opinioni”. Per tornare infine a Weimar, dove il nostro viaggetto è cominciato, quando lo Zarathustra di Nietzsche dice: “Chi più possiede più è posseduto” non allude al solo possesso di beni materiali, ma anche e soprattutto al possesso di credenze, convinzioni ed opinioni, il grande ego degli intellettuali.

da Dharma n, 17