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Parole da un amico

Vincenzo Piga

Dalla rivista “Dharma” no.1. Ringraziamo la redazione di Duemilauno per avercene permesso la pubblicazione.


Vincenzo non ha rilasciato molte interviste. La più lunga è stata quella raccolta da Roberto Minganti e Fiorella Òldoini per la rivista Duemilaeuno, n. 59, Roma, novembre-dicembre 1996. Ne riportiamo alcune parti che ci tratteggiano alcuni momenti della sua vita, la sua idea sul significato di “sangha” e le sue speranze per il futuro del Buddhadharma in Italia. Ringraziamo la redazione di Duemilauno per avercene permesso la pubblicazione.
D: Tu hai vissuto l’adesione al buddhismo come un grandissimo cambiamento?
Vincenzo: Sì. L’ho sentita come il prevalere delle problematiche di carattere spirituale, rispetto a quelle che fino allora mi avevano quasi prevalentemente interessato. Ho sentito che quello che conta, nel nostro servizio verso la società, non è tanto la trasformazione delle strutture sociali esterne – ad esempio: difendere o distruggere il capitalismo – quanto la trasformazione delle coscienze. Ho avuto poi conferma di questo dalla caduta dell’ex Unione sovietica, dove la pretesa formazione dell'”Uomo nuovo” si è rivelata una falsità, perché poi è venuto fuori che anche lì erano comunque presenti corruzione, desiderio di guadagno, egoismo, invidia e tutti quegli aspetti negativi della vita caratteristici delle società capitaliste. E, soprattutto, che la coscienza dei cittadini non era cambiata affatto.
D: Comunque la tua attività precedente all’avvicinamento al buddhismo era già caratterizzata dal servizio per gli altri.
Vincenzo: In un certo senso ero già su un terreno affine a quello buddhista, intendendo per “terreno buddhista” quello in cui si premia l’impegno, la solidarietà verso gli altri piuttosto che il tornaconto personale. A me non interessava tanto diventare ricco o famoso, quanto poter essere utile alla società e agli altri, alle generazioni future, ai popoli oppressi o ai ceti sociali emarginati. Il buddhismo mi ha indicato la strada giusta per poter essere veramente di aiuto: prima di tutto facendomi superare quel dualismo che spinge una persona a chiedersi: “Devo lavorare per me stesso o per gli altri?”. Il buddhismo mi ha fatto capire che non c’è questo contrasto, perché uno può lavorare per gli altri se lavora per se stesso tanto quanto è necessario per mettersi in condizione di essere utile agli altri, migliorandosi, preparandosi. Così come è solo lavorando per gli altri che si pacifica la mente e si vive più serenamente, più contenti di se stessi.
D: Come pensi che possano essere vissuti in Italia il senso, il valore della comunità buddhista (Sangha) e il rapporto maestro-discepolo?
Vincenzo: Su questi temi ho un’opinione che non so quanto sia condivisa da altri buddisti. Temi come il Sangha e il rapporto con il maestro, ritengo non siano adeguatamente affrontati e tenuti presenti nell’attività normale dei vari centri buddhisti. Per quanto riguarda la comunità, in generale, ma ci sono delle eccezioni, nell’attività pratica i centri buddhisti sembra che si dimentichino che il praticante buddhista, per procedere nel suo cammino spirituale, ha bisogno di contare su un “rifugio”. E il rifugio, così come viene indicato da 2500 anni, e come è stato praticato nei paesi buddhisti del!’ Asia, è composto di tre diversi soggetti, i Tre Gioielli, che nella loro indicazione usuale vengono denominati il Buddha, il Dharma, il
Sangha. Intendendo per Buddha non tanto il Buddha storico, quanto il principio della Buddhità, quella potenzialità cioè che ognuno di noi possiede. Per Dharma si intende l’insegnamento del Buddha storico, con tutti i commenti, le aggiunte, gli adattamenti che sono stati fatti nel corso del tempo, e il Sangha, la comunità, l’insieme dei discepoli. Il Sangha all’inizio indicava semplicemente la comunità dei monaci, ma con l’espandersi del buddhismo, e soprattutto con l’arrivo del buddhismo in Occidente dove la presenza dei laici è prevalente rispetto al numero dei monaci, il Sangha viene oramai inteso da tutti come l’insieme dei praticanti, in particolare dei praticanti che fanno capo a un determinato maestro, o almeno a una determinata tradizione.
Quindi Sangha, visto come oggetto di rifugio, diventa qualche cosa che è indispensabile nella pratica buddhista. Credo che il rapporto con gli altri praticanti sia essenziale per poter realizzare e valorizzare le proprie esperienze, e per lo sviluppo spirituale di ogni praticante. Questo è un punto essenziale della dottrina buddhista: affidarsi non soltanto all’insegnamento del maestro, alle letture di libri, ma soprattutto alle esperienze, sia dello stesso maestro, sia dell’amico praticante che abita nella stessa città, e che ha le stesse caratteristiche, la stessa formazione culturale, le stesse aspirazioni, gli stessi problemi. Spesso il contributo, nello scambio di esperienze personali, può essere più efficace dello stesso insegnamento del maestro. E questo reciprocamente, perché ognuno è in grado di aiutare gli altri, e ognuno ha bisogno di essere aiutato dagli altri. Questo aiuto reciproco fra praticanti dovrebbe essere il tessuto su cui si costruisce il Sangha, ma non mi pare che sia nella realtà pratica dei nostri centri.
D: Questo secondo te è un problema di derivazione asiatica o è nato qui in Italia?
Vincenzo: È un problema squisitamente italiano, occidentale. Un po’ per ragioni oggettive: altro è formare un Sangha in un paese buddhista, dove si vive il buddhismo quotidianamente; altro è realizzarlo in un paese occidentale dove il buddhismo continua a essere, nonostante tutti i progressi fatti, un elemento anomalo rispetto alla realtà sociale, culturale, religiosa in cui si vive. Quindi ci sono delle difficoltà oggettive, ma credo che ci sia una vera e propria sottovalutazione dell’importanza e dell’indispensabilità del Sangha, dell’amicizia e della reciproca collaborazione tra praticanti. Ammiro moltissimo il fatto che la Soka Gakkai abbia particolarmente curato questo aspetto della comunità dei praticanti: facilitare gli incontri, lo scambio di esperienze, mettere i praticanti in condizioni di potersi autogestire, aiutarsi a vicenda. Purtroppo, devo riconoscere che, a quanto ne so, questa esperienza della Soka Gakkai non trova riscontro in altre tradizioni o altre scuole.
Vincenzo Piga fondatore della fondazione maitreya
Io ho sempre accolto con molte riserve la teoria induista del Kali Yuga, secondo cui le cose andranno sempre peggio per l'umanità (fine del mondo, Apocalisse etc.). Non a caso alla Fondazione che ho messo in piedi ho voluto dare il nome di Maitreya, che è definito il Buddha del futuro. Non a caso nella iconografia tradizionale è rappresentato seduta in una posa che gli orientali definiscono ‘’alla occidentale“. Quasi come si ritenesse che la ventura di Maitreya dovesse coincidere con una notevole presenza del buddhismo in Occidente.

Vincenzo Piga

Che per me personalmente c'era bisogno. Penso che stabilire relazioni con altri sia meglio che stare da soli: la cultura occidentale è ricchissima e così pure quella orientale. ma in entrambe ci sono delle unilateralità; attivando gli scambi culturali (e non solo quelli economici che rischiano di assorbire tutta l'attenzione dei Governi) si facilita una integrazione delle diverse culture.
D: Tornando al rapporto maestro-discepolo, secondo la tua personale esperienza come lo vivono i laici italiani?
Vincenzo: Penso che nella maggioranza dei casi questo rapporto si sia stabilito in modo corretto. Non mancano però casi di un rapporto stabilito in maniera sbagliata o perché non si riconosce l’importanza e l’indispensabilità del maestro, soprattutto per certi percorsi spirituali – per esempio quello tantrico – oppure in senso opposto perché ci si affida al maestro come a un taumaturgo che è in grado di risolvere tutti i problemi, addebitandogli funzioni quasi paternalistiche.



Il maestro ha percorso un certo sentiero, ha realizzato importanti esperienze e, su richiesta delle persone interessate, (mai per imposizione propria), è disposto a indicare ad altri il sentiero che ha percorso, gli ostacoli che ha incontrato, i modi per superarli e i risultati che si possono ottenere. Con la persuasione però che il vero maestro ognuno poi lo deve trovare dentro se stesso, perché la vera funzione del maestro è quella di aiutare il discepolo a trovare il maestro dentro se stesso.
D: Cosa vedi nel futuro della diffusione del Dharma in Italia e quali sono i problemi più importanti che affrontiamo oggi?
Vincenzo: La mia convinzione è che il futuro della diffusione del Dharma in Italia sia strettamente condizionato dal rapporto che il Dharma riuscirà a stabilire con la cultura italiana, intendendo cultura nel senso più ampio, comprensivo anche della sfera religiosa. Il Dharma dovrebbe adattarsi alla cultura italiana in maniera tale da poter confrontarsi, senza considerarli orientamenti estranei alla propria tradizione, con una cultura razionalistica, antidogmatica, empiristica, pluralistica: con una cultura liberale e libertaria che poggia da due millenni oramai su basi cristiane. Cercando di trovare una convivenza, ponendosi cioè non come alternativa, ma come un elemento per il progresso della realtà culturale italiana. Ho in mente le considerazioni di alcuni studiosi: il filosofo I della scienza Fritjof Capra \ e due monaci camaldolesi, David Steindl-Rast e Thomas Matus – il primo in campo scientifico, i secondi in campo religioso – i quali propongono alla cultura occidentale una svolta che la metta in grado di potersi adattare ai compiti nuovi di fronte ai quali si trova e di cui può prendere coscienza soprattutto avvicinandosi, e in un certo senso assimilando, certi aspetti della cultura orientale, fino ad arrivare a una unificazione culturale planetaria che dovrebbe superare tutte le distinzioni che ancora si fanno tra culture diverse. Si dovrà determinare, secondo me, un certo adattamento nella tradizione buddhista per potersi meglio ambientare in Occidente, e così arricchire la nostra cultura e arricchirsi con la nostra cultura.
D: Come giornalista quale domanda ti saresti fatto, visto che ti conosci meglio di tutti?
Vincenzo: Cominciamo col ricordare che conoscere se stessi è la più difficile delle conoscenze. Per Socrate era da considerarsi l’impegno più importante di tutta la vita. Comunque, mi sarei chiesto se con tutta la ricchezza culturale, spirituale, artistica, filosofica che c’è in Occidente, c’era proprio bisogno di andare a trovare in Oriente determinati stimoli.
D: E cosa risponderesti?
Vincenzo: Che per me personalmente c’era bisogno. Penso che stabilire relazioni con altri sia meglio che stare da soli: la cultura occidentale è ricchissima e così pure quella orientale. ma in entrambe ci sono delle unilateralità; attivando gli scambi culturali (e non solo quelli economici che rischiano di assorbire tutta l’attenzione dei Governi) si facilita una integrazione delle diverse culture.
La scelta dei piccoli passi dal canone riportati nella quarta pagina di copertina di Paramita per ogni annata a partire dal 1991 ha sempre rappresentato per Vincenzo un 'attività importante per dare ai lettori dei suggerimenti dalla Dottrina su cui poter riflettere. Ve li vogliamo riproporre così come ce li ha lasciati: punti su cui ripensare, da ricordare e meditare.
D: Quali sono le tue speranze per il futuro?
Vincenzo: Io ho sempre accolto con molte riserve la teoria induista del Kali Yuga, secondo cui le cose andranno sempre peggio per l’umanità (fine del mondo, Apocalisse etc.). Non a caso alla Fondazione che ho messo in piedi ho voluto dare il nome di Maitreya, che è definito il Buddha del futuro. Non a caso nella iconografia tradizionale è rappresentato seduta in una posa che gli orientali definiscono ‘’alla occidentale“. Quasi come si ritenesse che la ventura di Maitreya dovesse coincidere con una notevole presenza del buddhismo in Occidente.
Non do un’interpretazione personalizzata del mito di Maitreya, non penso che a un certo punto arriverà una persona chiamata Maitreya che predicherà un nuovo Dharma, quasi novello messia. Il principio di base del mito di Maitreya è che l’evoluzione psicofisica del genere umano arriverà, tra centinaia e forse migliaia di anni, a livelli tali per cui l’insegnamento del Buddha non sarà più adatto e ci sarà il frutto del contributo di milioni di praticanti e di nuovi maestri che ne sapranno elaborare le esperienze e accogliere quanto di buono si troverà in altre dottrine, in altre religioni.
D: Speriamo soprattutto che in futuro si possa realizzare una pace stabile e duratura.
Vincenzo: Ci sarà la pace. Questo Buddha del futuro si chiama Maitreya, che vuol dire il regno di maitri, cioè il regno della benevolenza e dell’amore universale.
1991-1992: Il Buddha ha detto: “Non fatevi guidare da dicerie, da tradizioni o dal sentito dire; non fatevi guidare dall’autorità dei testi religiosi, oggetti spesso di manipolazioni; non fatevi guidare solo dalla logica o dalla dialettica, né dalla considerazione delle apparenze, né dal piacere del filosofare, né dalle verosimiglianze, né dall’autorità dei maestri e dei superiori. Imparate da voi stessi a riconoscere quello che è nocivo, falso o cattivo e, dopo averlo osservato e investigato avendo compreso che porta danno e sofferenza, abbandonatelo. Imparate da voi stessi a riconoscere quello che è utile, meritevole e buono e, dopo averlo osservato ed investigato, avendo compreso che porta beneficio e felicità, accettatelo e seguitelo”.
1993: Il Buddha chiese a un discepolo suonatore di liuto: “Il tuo liuto può dare un suono armonioso se le sue corde sono troppo lente?”. “No, Signore”, rispose il discepolo. “E se le corde sono troppo tirate, il tuo liuto può dare un suono armonioso?”. “No, Signore”. “E se le corde sono né troppo lente né troppo tirate, il tuo liuto può dare un suono armonioso?”: “Sì, Signore”. “Allo stesso modo, mio discepolo – concluse il Buddha una persona molle e indolente non progredisce nella via spirituale; d’altra parte, una persona che si sforzi eccessivamente, presto si stanca e si scoraggia. Impara dunque, mio discepolo, a misurare le tue forze e a riconoscere le tue possibilità e conserva calma la mente e rilassato il corpo. Solo così otterrai beneficio nella vita spirituale”.
1994 : Il Buddha ha detto: “Imparate ad osservare con vigile consapevolezza tutto ciò che accade dentro di voi e nulla vi potrà imprigionare. E come un praticante è possessore di vigile consapevolezza? E’ chiaro e vigilante nell’alzarsi e nel camminare; è chiaro e vigilante nell’andare e nel venire; è chiaro e vigilante, nel vedere, nell’ osservare; è chiaro e vigilante nel cibarsi e nel bere, nel masticare e nel gustare; è chiaro e vigilante nello svuotarsi delle feci e dell’urina; è chiaro e vigilante nel fermarsi, nel sedersi, nell’addormentarsi, nel destarsi, nel parlare, nel mantenere il silenzio”.

Ci sarà la pace. Questo Buddha del futuro si chiama Maitreya, che vuol dire il regno di maitri, cioè il regno della benevolenza e dell'amore universale.

Vincenzo Piga

La mia convinzione è che il futuro della diffusione del Dharma in Italia sia strettamente condizionato dal rapporto che il Dharma riuscirà a stabilire con la cultura italiana, intendendo cultura nel senso più ampio, comprensivo anche della sfera religiosa. Il Dharma dovrebbe adattarsi alla cultura italiana in maniera tale da poter confrontarsi, senza considerarli orientamenti estranei alla propria tradizione, con una cultura razionalistica, antidogmatica, empiristica, pluralistica: con una cultura liberale e libertaria che poggia da due millenni oramai su basi cristiane.
1995: “Spetta personalmente al praticante compiere 10 sforzo necessario per realizzare la propria lìberazione; gli illuminati possono soltanto indicare la Via. Colui che si impegna nell’addestramento mentale entra nella Via e scioglierà i lacci delle illusioni”.
1996: Il Buddha ha detto: “Comunque si parli di v0i: a ragione o a torto, in termini appropriati o non appropriati, gentilmente o con asprezza, saggiamente o con stoltezza, benevolmente o con malignità, così dovete educarvi: “La nostra mente rimarrà immacolata e parole offensive non usciranno dalle nostre labbra. Dimoreremo gentili e compassionevoli, senza malevolenza nel cuore. Abbracceremo ogni persona in un flusso inesauribile di pensieri amorevoli e irraggeremo il mondo intero con pensieri di benevolenza: ampia, espansiva, illimitata, libera da ostilità, libera da superbia. Educate così voi stessi”.
1997 : “Chi recita parole sacre, ma non le mette in pratica e rimane con la mente distratta, diventa estraneo alla comunità spirituale: E’ come un pastore che conta il bestiame altrui” Dhammapada, 19 1998: Il Buddha ha detto. “Una conoscenza perfetta del mio insegnamento non si raggiunge con pochi incontri, ma procedendo passo per passo. Colui che, arrivato fiducioso da noi, ascolta con attenzione l’insegnamento, non lo dimentica e ne approfondisce il senso, potrà scoprirne la saggezza. Egli allora la approva e la mette in pratica e, applicandosi con continuità, realizza la sublime Verità” Majjhima Nikaya, LXX, discorso 10°.
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PAROLE PER UN AMICO

Vincenzo Piga è stata una figura centrale per molti di coloro che ancora oggi si trovano ad operare per rendere viva la presenza del Dharma nel nostro paese. La sua energia, le sue idee a getto continuo, la sua intraprendenza hanno reso possibile molte di quelle realtà, in ambito buddhista, che oggi sembrano un dato acquisito, ma che per i pionieri come lui sono state fonte di notevole impegno, preoccupazioni e ‘arrabbiature’, per le quali era anche molto famoso.

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