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Non di questi toni, amici!

Hermann_Hesse_di Hermann Hesse

Di fronte al crescere delle tensioni e delle contrapposizioni in varie parti del mondo  le parole di un grande e sensibile maestro della letteratura, scritte quasi un secolo fa, non risuonano lontane.

Le pagine che qui riportiamo sono di un “tenace” Hermann Hesse, pagine di cui lui stesso ci dice: “Se definisco ‘politiche’ queste mie considerazioni, è sempre e soltanto tra virgolette, perché in esse di politico non c’è che l’atmosfera in cui volta per volta hanno avuto origine. E a parte questo, sono tutto fuorché politiche, dal momento che ciascuna di esse non si propone di porre il lettore di fronte alla scena del mondo e ai suoi problemi appunto politici, bensì di trascinarlo nel proprio intimo, di metterlo di fronte alla propria personalissima coscienza. Da questo punto di vista, non vado affatto d’accordo con i politici, a qualsiasi tendenza appartengano e rimarrò sempre incrollabilmente fedele alla mia idea, quella che nell’uomo, nel singolo individuo e nel suo animo, esistono ambiti intangibili dalle istanze e dai condizionamenti politici.”

Non di questi toni, amici! Hermann Hesse lo scrisse nel settembre del 1914, e furono parole di grande spessore umano e morale, parole che gli valsero l’eterna stima di Romain Rolland e l’eterno disprezzo di moltissimi uomini, che lo avrebbero voluto allineato ai ben più facili e aggreganti odii che in quel momento imperavano, annebbiando occhi e cuore di interi popoli.

Claudio Magris,  nella sua intensa prefazione dell’opera di Hesse ne I Meridiani di  Mondadori, così di lui scrive, corroborando questo sentire:

“Forse Hesse è un grande scrittore medio, che la profondità di pensiero e l’integrità umana hanno innalzato a fianco dei veri maestri della letteratura del nostro secolo, dei quali egli non è all’altezza sul piano poetico ma ai quali va degnamente affiancato per il significato umano e morale che la sua testimonianza personale e la sua opera hanno acquistato, raro esempio di coerenza personale e di un animo che si è fatto interprete dei dolori di tutti, esercitando l’arte poetica come un servizio d’amore reso agli altri uomini.Hermann Hesse è un risvegliatore d’anima, sollecitando a quella nostalgia che sprona a divenire il meglio di quel che siamo, coscienti dei nostri talenti e delle nostre umane finitezze.”

“Hesse è un uomo di pace, di quella “non violenza” che è un atto di coraggio e non di debolezza, lucida visione che violenza porterà sempre altra violenza, esperienza fatta “nel suo dentro” che il solo e possibile campo di battaglia è dentro ognuno di noi, snidato lì il nemico non sarà mai più messo fuori.

Ogni suo scritto parla di questo possibile e necessario cambiamento.Per questo Hermann Hesse si augurava lettori che tramite i suoi libri diventassero dei “tenaci”, che non avessero bisogno di modelli da imitare ma avessero una testa propria e una propria lingua; e proprioperchè lo avessero compreso, non avevano più bisogno di lui.” (Alois Prinz, Vita di Hermann Hesse, Donzelli editore).

Ecco perché Hermann Hesse è il prezioso testimone, insieme a Raimon Panikkar del Convegno che qui vi presentiamo e a cui vi invitiamo: DIVENTARE IL PRESENTE”, IV edizione di Omaggio a Hermann Hesse.

(Patrizia Gioia, ideatrice e curatrice di “Omaggio a Hermann Hesse”

info@spaziostudio.net – HYPERLINK “http://www.spaziostudio.net/” www.spaziostudio.net

Non di questi toni, amici!

Hermann Hesse

Le nazioni si stanno accapigliando, e ogni giorno innumerevoli sono coloro che soffrono e muoiono nel corso di terribili scontri. Proprio nel pieno delle drammatiche notizie di eventi Le nazioni si stanno accapigliando, e ogni giorno innumerevoli sono coloro che soffrono e muoiono nel corso di terribili scontri. Proprio nel pieno delle drammatiche notizie di eventi bellici, mi è tornato alla mente, come a volte capita, un episodio dei miei anni giovanili che da un pezzo avevo dimenticato. Ne avevo quattordici, era una calda giornata d’estate, e a Stoccarda dovevo sostenere il celebre Landexamen svevo *; il tema che ci era stato assegnato era il seguente: «Quali sono i lati buoni e quali i cattivi della natura umana, che vengono risvegliati e accentuati da una guerra?». Il mio svolgimento non si rifaceva a nessuna esperienza diretta, e com’è ovvio risultò completamente fuori tema, e ciò che allora, da ragazzo, intendevo per «guerra» e per «virtù e vizi bellici», non corrisponde affatto alle definizioni che ne darei oggi. Ma, alla luce degli eventi quotidiani e di quel piccolo ricordo, in questo periodo ho riflettuto a lungo sulla guerra, e poiché ormai è invalsa l’abitudine che gli uomini che fanno professione di studiosi e di artisti rendano nota la loro opinione in merito, non esito più a far conoscere anche la mia. Io sono tedesco, e le mie simpatie e i miei voti vanno alla Germania, ma quel che voglio dire non riguarda la guerra e la politica, bensì la posizione e i compiti dei neutrali. Termine con il quale non intendo designare i popoli politicamente neutrali, bensì tutti coloro che, in veste di scienziati, di insegnanti, di artisti, di letterati, operano per la pace e per l’umanità.

            In questi ultimi tempi abbiamo avuto modo di notare preoccupanti segni di una funesta confusione mentale. Si sente parlare di una revoca, in Russia, dei brevetti tedeschi, di In questi ultimi tempi abbiamo avuto modo di notare preoccupanti segni di una funesta confusione mentale. Si sente parlare di una revoca, in Russia, dei brevetti tedeschi, di boicottaggio, in Francia, della musica tedesca, come pure di un equivalente boicottaggio, in Germania, delle opere dell’ingegno di nazioni nemiche. Stando a quel che dicono numerosissimi quotidiani tedeschi, d’ora in poi non si tradurranno più opere di inglesi, francesi, russi e giapponesi; esse non saranno più riconosciute, non saranno più recensite. E non si tratta di semplici voci, bnseì di fatti concreti, di una prassi già invalsa.

Sicché, una bella fiaba giapponese, un buon romanzo francese, che prima dello scoppio della guerra venivano fedelmente e amorosamente tradotti da un tedesco, d’ora in poi resteranno per noi muti. Un dono bello e buono, offerto con amore al nostro popolo, verrà respinto semplicemente perché alcune navi giapponesi bloccano Tsingtau. E se oggi lodo l’opera di un italiano, di un turco, di un romeno, posso farlo soltanto a patto che, prima che la mia dichiarazione venga pubblicata, un diplomatico o un giornalista non alterino l’atmosfera politica in quelle nazioni.

D’altro canto, vediamo artisti e scienziati levare proteste contro le potenze impegnate nel conflitto: come se, nel momento in cui il mondo è in fiamme, parole del genere, provenienti da una scrivania, abbiano un qualche valore; e come se un artista o letterato, si tratti pure del migliore e del più celebre, avesse voce in capitolo nelle faccende della guerra.

Altri invece prendono parte attiva al grande evento trasponendo la guerra nelle loro stanze di studio e componendovi sanguinosi canti di battaglia o articoli con cui nutrono e fomentano furiosamente l’odio tra i popoli. È forse questa la cosa peggiore. Chiunque si trovi sul campo e ognigiorno rischi la pelle ha pienamente diritto all’esasperazione, e a volte all’ira, e all’odio, e lo stesso vale per ogni politico attivo; ma noialtri, noi poeti, artisti, giornalisti – possibile che sia nostro compito quello di rendere peggiore il male, di moltiplicare gli aspetti detestabili e deprecabili?

Forse che per la Francia è un vantaggio se tutti gli artisti del mondo protestano contro il rischio fatto correre a un bell’edificio? E lo è per la Germania se non si leggono più libri inglesi o francesi? Nel mondo qualcosa migliora, diviene più sano, più giusto, se uno scrittore francese rivolge volgari insulti al nemico e tenta di infondere nelle forze armate un bestiale furore?

Tutte queste manifestazioni, dalla «voce» sfacciatamente inventata di sana pianta all’articolo provocatorio, dal boicottaggio dell’arte «nemica» all’ingiuria lanciata contro intere nazioni, derivano da una povertà di pensiero: da una banalità intellettuale che torna senz’altro utile a ogni soldato combattente, ma che mal s’addice a un lavoratore o artista con la testa sulle spalle. Escludo a priori da questo mio rimprovero tutti coloro agli occhi dei quali già in precedenza il mondo cessava di esistere ai paletti di confine. Coloro per i quali ogni lode rivolta alla pittura francese era un orrore e che si sentivano invadere dalla rabbia non appena udissero echeggiare una parola straniera, non sono le persone di cui sto parlando: costoro continuano a fare quello che hanno sempre fatto. Ma tutti gli altri, gli individui che con maggiore o minore consapevolezza partecipavano all’edificazione sovrannazionale della cultura umana, e che adesso all’improvviso vogliono trasporre la guerra nel regno dello spirito, commettono un atto di ingiustizia e un grossolano errore. A lungo essi hanno servito l’umanità e creduto nell’esistenza di un ideale umano sovrannazionale, quando l’ideale in questione non contraddiceva nessun gretto evento, allorché era comodo e ovvio pensare e agire in questo modo. Ma adesso che si tratta di operare, di affrontare il rischio, di scegliere tra essere e non essere, di tener fede a quello che è il massimo tra tutti gli ideali, ecco che costoro se la svignano e intonano la canzone cui il vicino presta più volentieri orecchio.

 

Tutte queste manifestazioni, dalla «voce» sfacciatamente inventata di sana pianta all’articolo provocatorio, dal boicottaggio dell’arte «nemica» all’ingiuria lanciata contro intere nazioni, derivano da una povertà di pensiero: da una banalità intellettuale che torna senz’altro utile a ogni soldato combattente, ma che mal s’addice a un lavoratore o artista con la testa sulle spalle. Escludo a priori da questo mio rimprovero tutti coloro agli occhi dei quali già in precedenza il mondo cessava di esistere ai paletti di confine. Coloro per i quali ogni lode rivolta alla pittura francese era un orrore e che si sentivano invadere dalla rabbia non appena udivano echeggiare una parola straniera, non sono le persone di cui sto parlando: costoro continuano a fare quello che hanno sempre fatto. Ma tutti gli altri, gli individui che con maggiore o minore consapevolezza partecipavano all’edificazione sovrannazionale della cultura umana, e che adesso all’improvviso vogliono trasporre la guerra nel regno dello spirito, commettono un atto di ingiustizia e un grossolano errore. A lungo essi hanno servito l’umanità e creduto nell’esistenza di un ideale umano sovrannazionale, quando l’ideale in questione non contraddiceva nessun gretto evento, allorché era comodo e ovvio pensare e agire in questo modo. Ma adesso che si tratta di operare, di affrontare il rischio, di scegliere tra essere e non essere, di tener fede a quello che è il massimo tra tutti gli ideali, ecco che costoro se la svignano e intonano la canzone cui il vicino presta più volentieri orecchio.

Va da sé che quanto dico non deve essere inteso in senso antipatriottico, come negazione dell’amore per la propria tradizione nazionale. Sono io l’ultimo che, in questo momento, sarebbe disposto a rinnegare la propria patria, né mi passerebbe per la mente di impedire a un soldato di compiere il proprio dovere. Poiché ormai la parola è alle armi, non si può che farne uso, ma non già per amore delle armi e per odio contro l’indegno nemico, ma solo per tornare a dedicarsi, al più presto, a un’opera più alta e migliore. Ogni giorno, molto viene distrutto di ciò cui tutti i benintenzionati tra gli artisti, gli scienziati, i viaggiatori, i traduttori, i giornalisti d’ogni paese a lungo avevano dedicato la propria esistenza: non ci si può far niente. Ma è insensato ed erroneo da parte di chiunque abbia creduto, sia pure soltanto per un unico, splendido istante, all’ideale dell’umanità, a una scienza internazionale, a una bellezza artistica trascendente i confini, lasciar cadere la bandiera in preda a sgomento di fronte all’evento mostruoso, e permettere che la propria parte migliore sia travolta dalla generale rovina. Credo che siano ben pochi, tra i nostri poeti e letterati, quelli nella cui opera omnia un giorno figurerà al primo posto quanto hanno cantato e scritto oggi, nella collera del momento; e tra quelli, posto che si possa prenderli sul serio, non ve n’è uno al cui cuore non siano più care le canzoni patriottiche di Korner che le composizioni poetiche di quel Goethe che si è tenuto cosi singolarmente distante dalla grande guerra di liberazione del suo popolo.

Già, gridano adesso i superpatrioti, ma quel Goethe ci è apparso sempre sospetto! Goethe non è mai stato un patriota, e anzi ha infettato lo spirito tedesco con quell’internazionalismo sommesso, freddo, di cui abbiamo a lungo sofferto e che ha notevolmente indebolito la nostra coscienza tedesca!

 Ed è qui che risiede il nocciolo del problema. Goethe non è mai stato un cattivo patriota, anche se nel 1813 non ha composto nessun inno nazionale. Ma in lui l’amore per la germanicità che conosceva e apprezzava come nessun altro, cedeva il passo all’amore per l’umanità. Goethe era un cittadino e un patriota del mondo internazionale del pensiero, della libertà interiore, della coscienza intellettuale, e nei momenti più alti della sua creatività toccava tali vette che i destini dei popoli non gli apparivano più nella loro singolarità, bensì quali momenti subordinati al tutto.

Si accusi pure di freddo intellettualismo chi in un momento di grave pericolo non può che tacere – eppure si tratta proprio dello spirito secondo il quale sono vissuti i massimi pensatori e poeti tedeschi. Ricordarlo, esortare all’imparzialità, alla moderazione, al decoro, all’amore per l’umanità che in quello spirito erano impliciti è ora più che mai necessario. Si giungerà forse al punto che occorra coraggio, a un tedesco, per trovare migliore un libro inglese che non un brutto libro tedesco? Deve proprio accadere che lo spirito dei nostri stessi combattenti, quello che risparmia e sostenta il prigioniero nemico, svergogni quello i dei nostri pensatori che non intendono più né riconoscere né apprezzare il nemico anche quando sia pacifico e portatore di cose buone? Che accadrà dopo la guerra, in quel periodo che già tutti un po’ paventiamo, allorché i viaggi e gli scambi tra i popoli saranno ridotti a ben poco? E chi darà il suo fattivo contributo perché la situazione muti, perché si torni a comprendersi, a riconoscersi, a imparare gli uni dagli altri: chi lo farà, se non noi, noi che sediamo alla scrivania e sappiamo che i nostri fratelli sono sul campo di battaglia? Onore a colui che combatte, che sparge il sangue i rischia la vita in campo aperto, sotto le granate! A noialtri, che amiamo la patria e che non vogliamo disperare del futuro, spetta il compito di mantenere un barlume di pace, di costruire ponti, di cercare strade, non già di menar botte (con la penna!) e minare ulteriormente le fondamenta del futuro europeo.

Ancora una parola a quei molti per i quali questa guerra è fonte di sofferenze e ai cui occhi sembra che, poichè si è in guerra, la cultura tutta quanta, ogni residuo di umanità, ne siano stati distrutti. L guerra c’è sempre stata, a quanto almeno ci risulta del divenire umano, e non c’è motivo di credere nella sua abolizione; a persuaderci del contrario è stata soltanto l’abitudine di una lunga pace. E guerra ci sarà finché la maggioranza dei nostri simili non riuscirà a convivere nel goethiano regno dello spirito. Guerra ci sarà ancora a lungo, forse per sempre. Ciò non toglie che il superamento della guerra costituisca ora come prima, la nostra più nobile meta e la coerenza suprema della civiltà cristiano-occidentale. Lo scienziato proteso alla ricerca dei mezzi con cui combattere un contagio non getterà certo il suo lavoro a mare qualora sia sorpreso dallo scatenarsi di una nuova epidemia. E ancor meno accadrà che la « pace in terra» e l’amicizia tra gli uomini di buona volontà cessino un giorno di essere il nostro supremo ideale. La cultura umana è frutto della sublimazione di impulsi animaleschi in spirituali per opera della vergogna, della fantasia, della conoscenza. Che la vita valga la pena di essere vissuta, ecco il contenuto ultimo e la consolazione di ogni arte, ancorché a ogni esaltatore della vita tocchi pur sempre morire. Che l’amore sia superiore all’odio, la comprensione superiore all’ira, la pace più nobile della guerra, è cosa che proprio questa nefasta guerra mondiale deve insegnarci, marchiandocene più profondamente che mai. Altrimenti, a che servirebbe?

 

Landexamen (letteralm., esame di stato) equivaleva al nostro esame di terza media, ed era particolarmente severo in Svevia.

 

 

 

BOX CONVEGNO

SpazioStudio e Fondazione Arbor

 

Anno Europeo del Dialogo Interculturale

IV edizione “Omaggio a Hermann Hesse”

 

Convegno DIVENTARE PRESENTE

Testimonianze a dialogo: Hermann Hesse, Raimon Panikkar e noi

 

a cura di Patrizia Gioia e Pietro Sergio Mauri

Milano, novembre/dicembre 2008

 

Palazzo Sormani – 17 novembre

Biblioteca Nazionale Braidense – 24 novembre

Teatro dei Filodrammatici – 1 dicembre

Libreria Rizzoli – 20 e 27 novembre

Biblioteca Civica Lissone – 4 e 11 dicembre (ingresso libero)

 

Informazioni:

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